Hic sunt leones
Padre Giuseppe Ambrosoli medico e sacerdote
La missione della Chiesa nel mondo necessita di uomini capaci di rendere intelligibile la Buona Notizia. È sempre stato così da quando Nostro Signore conferì agli apostoli il Mandatum Novum, all’insegna della carità evangelica. Dunque, se a distanza di duemila anni possiamo continuare a coltivare la virtù della speranza, è soprattutto grazie allo spirito di donazione che ha animato, nel corso di duemila anni di storia, un numero indicibile di santi e di beati. Tra questi ce n’è uno che dopo due anni di attesa e di rinvii a causa della pandemia, verrà beatificato il prossimo 20 novembre nella sua missione di Kalongo, nel nord Uganda: padre Giuseppe Ambrosoli. Si tratta di un missionario comboniano, medico e sacerdote che ha speso la sua vita a servizio degli ultimi.
Nato il 25 luglio 1923 a Ronago, in provincia di Como, era uno dei figli del fondatore dell’omonima azienda del miele. Dal 1942 al 1950, il giovane Ambrosoli completò la sua formazione classica e professionale e pose le basi di una solida spiritualità che aveva già avuto modo di manifestarsi nell’apostolato tra i giovani dell’Azione Cattolica. Con grande zelo, si iscrisse alla facoltà di Medicina con il desiderio di partire per la missione: «Dio è amore, c’è un prossimo che soffre ed io sono il suo servitore», spiegò ai propri familiari. Nel 1949 fece visita al superiore dei Comboniani di Rebbio (Como) con l’intento di mettere a servizio della missione ad gentes la sua qualifica di medico. Ricevuto l’assenso, chiese un periodo di riflessione prima di decidere definitivamente di entrare nella Congregazione missionaria. Conseguita la specializzazione in medicina tropicale “Tropical Hygiene” di Londra, con entusiasmo e senza rimpianti, lasciò alle spalle l’agio della condizione familiare e una carriera medica che si prospettava brillante in patria. Fece il suo ingresso nel noviziato comboniano di Gozzano (Novara) il 18 ottobre 1951 e quattro anni dopo, il 17 dicembre 1955 venne ordinato sacerdote dall’allora arcivescovo di Milano e futuro Papa Giovanni Battista Montini. Questo periodo segnò propriamente il completamento della formazione religioso-teologica di padre Ambrosoli. Il 10 febbraio del 1956 partì per l’Uganda, con destinazione Gulu (capoluogo del nord del Paese). Da qui si trasferì a Kalongo nell’East-Acholi, mentre seguiva e terminava gli studi dell’ultimo anno di teologia al seminario intervicariale di Lachor (Gulu). Il suo servizio missionario si svolse in quella porzione del popolo Acholi che occupava l’estremo est dell’attuale arcidiocesi di Gulu.
L’Uganda settentrionale — è bene precisarlo — è un’immensa pianura ondulata, con un’estensione di circa 50.000 km quadrati, rotta di quando in quando da qualche boscaglia e da montagne rocciose che si ergono maestosamente e danno un’immagine plastica a un paesaggio in cui il cielo equatoriale sembra abbracciare tutto ciò su cui veglia. L’altitudine media di questo territorio si aggira attorno ai mille metri sul livello del mare, ma questo non impedisce che sia una delle zone più calde dell’Uganda. A settentrione la pianura s’innalza leggermente verso le montagne di Ogoro e di Paloga, che servono come confine naturale col Sudan meridionale; si tratta di alture che un tempo venivano utilizzate come rifugio dai ribelli.
Il paesaggio è comunque seducente agli occhi di qualunque viaggiatore. Vi sono immense savane, nella stagione delle piogge dall’erba altissima, con qualche boscaglia in cui è possibile trovare refrigerio quando il sole è allo zenit. E è proprio nel settore orientale di questo territorio, a valle di un’enorme e suggestiva spina vulcanica di granito con un dislivello di 500 metri, il monte Oret, che si erge la piccola e ospitale cittadina di Kalongo dove padre Ambrosoli trascorse il resto della sua vita, esattamente 31 anni, dal 19 febbraio 1956 al 13 febbraio 1987. Quando vi giunse, vi trovò un piccolo centro di maternità e un dispensario che trasformò, sotto la sua guida, in un vero e proprio ospedale. Nel 1959 fondò, sempre a Kalongo, la Scuola per ostetriche e infermiere con la collaborazione delle missionarie comboniane.
Nel 1972, poi, si fece carico anche dei lebbrosari di Alito e Morulèm. Gli unici intervalli in cui si assentò da Kalongo, furono i brevi periodi rappresentati dalle vacanze, spesso trasformate in autentici tour de force per accrescere le sue molteplici competenze nel campo chirurgico e procurare fondi per il complesso ospedaliero.
La sua fama si diffuse un po’ ovunque, non solo in territorio Acholi, ma anche tra altri gruppi etnici della regione come i Lango, ma anche dai Kuman e Teso. A questo proposito sono numerosi gli aneddoti che ne descrivono la popolarità. Chi scrive, ad esempio, una volta ricevuta l’ordinazione diaconale nel maggio del 1985, un giorno si recò per impartire i battesimi in un villaggio, nei pressi del lebbrosario di Alito, ad un folto gruppo di catecumeni. Il primo di loro pretese di essere battezzato con il nome di «Doctor Ambrosoli». All’obiezione se non fosse più conveniente essere chiamato «Giuseppe», si oppose strenuamente perché era stato il «Doctor Ambrosoli» a salvargli la vita nel suo ospedale.
Sta di fatto che da quelle parti sono molti coloro che portano quel nome. Ciò che colpiva maggiormente i pazienti di Kalongo era la straordinaria capacità di padre Ambrosoli di infondere speranza. Non si trattava di semplice coerenza professionale, ma di un trasporto e partecipazione totale in quello che stava testimoniando, e non per mero apparire esteriore ma dal profondo del proprio essere, tanto da suscitare nella gente un religioso rispetto. D’altronde era un contemplativo con l’anima e con il cuore. Inizialmente, veniva soprannominato «Ajwaka Madid», lo «stregone bianco» che poi per la sua carica spirituale gli valse il titolo di «medico della carità». Il suo servizio missionario fu scandito da avvenimenti che segnarono positivamente e anche tragicamente la storia d’Uganda. Visse infatti la parte finale della stagione coloniale britannica, a cui seguirono l’indipendenza, l’ascesa al potere di Milton Obote, l’avvento del dittatore Idi Amin Dada, il ritorno di Obote e l’avvento dell’attuale presidente Yoweri Museveni.
Gli ultimi anni della sua vita furono segnati in particolare dalla guerriglia di cui ancor oggi il Nord Uganda conserva profonde ferite. Proprio in seguito ai ripetuti scontri tra forze governative e fazioni ribelli, il 13 febbraio 1987 fu costretto ad evacuare l’ospedale di Kalongo. Si pose allora per lui la questione più spinosa: quella di trovare un posto conveniente alla sua creatura più amata: la Scuola per ostetriche e infermiere. Sottopose così la sua salute, già gravemente compromessa, a sforzi enormi che, alla fine, lo condussero alla morte per insufficienza renale. Il pomeriggio del 27 marzo 1987 si spense a Lira, 44 giorni dopo essere stato costretto ad abbandonare la sua Kalongo.
Come ha scritto di lui il postulatore della sua causa, padre Arnaldo Baritussio: «Ambrosoli ha certamente contribuito a inserire a pieno titolo il servizio medico nella prassi evangelizzatrice, che allora era soprattutto intesa come annuncio attraverso la Parola e i sacramenti in vista della fondazione di una Chiesa locale. Pur senza mettere in discussione questa opzione di fondo, ha contribuito, con l’offerta della sua professionalità medica, ad allargare il concetto e la realtà dell’annuncio. Il servizio agli ammalati è una modalità di annuncio altrettanto nobile e necessaria quanto quella della predicazione».
Egli, in effetti, ha vissuto in maniera creativa il motto «santi e capaci» con cui San Daniele Comboni è stato riconosciuto dalla Chiesa, continuando ad essere ancora oggi fonte di ispirazione per molti missionari e missionarie. Non v’è dubbio che il suggello di amore eroico a tutta una vita spesa per il prossimo ha trovato il suo felice prosieguo nell’impegno profuso attraverso un altro medico-missionario, padre Egidio Tocalli (che riaprì l’ospedale nel 1990) e la Fondazione Ambrosoli, costituita nel 1998 dalla famiglia di padre Ambrosoli e dai Missionari Comboniani per dare continuità e futuro all’ospedale e alla Scuola di ostetricia. Una testimonianza, questa, di fedeltà all’ideale comboniano di «salvare l’Africa con l’Africa».
di Giulio Albanese