
«Terzo Millennio Adveniente» si intitolava la lettera apostolica di Giovanni Paolo ii nel 1994: «Mentre ormai si avvicina il terzo millennio della nuova era...». La pienezza del tempo. Oliver è nato che il terzo millennio era già arrivato, nel primo giorno del primo anno, il primo gennaio 2001. Un’alba di attesa, conclusa con l’attacco dell’11 settembre e l’inizio del ventennio di guerra in cui siamo immersi: «I miei genitori venivano dal Ruanda, si sono rifugiati in Libia, io sono nato lì. Sono nato profugo». Anna è nata il 10 settembre 1988, viene da Aleppo, in Siria: «La guerra cominciata nel 2011 ha distrutto tutto, ogni sogno».
Incontro Oliver e Anna una mattina di sole alla Scuola della pace della Comunità di Sant’Egidio a Palazzo Leopardi, di fronte a piazza Santa Maria in Trastevere. Sono sorridenti, sereni, mi raccontano la loro vita in poche frasi, senza retorica, il mio taccuino si riempie di appunti, superiamo subito la barriera della diffidenza. I grandi della Terra parlano di confini, strategie, alleanze, sono abituato a parlarne per il mio lavoro di giornalista, ma ora sono qui a guardare in volto le vittime di quelle scelte, costrette ad abbandonare il loro paese, ascolto la loro storia che non è straordinaria, la loro è la storia di moltissimi, la storia di tutti.
In undici anni di guerra in Siria ci sono stati undici milioni di profughi (in una popolazione di circa 22 milioni di abitanti) e oltre 350mila morti, anche i numeri sono incerti, quanti saranno davvero, chi mai li identificherà, chi conoscerà il loro nome, chi mai lo pronuncerà di fronte agli uomini?
Dare un volto, assegnare un nome, raccontare una storia. La storia non è fatta di numeri, ma di singole persone, di desideri minimi, di aspettative quotidiane e preziose. La storia di tutti, anche di chi non potrà raccontarla.
Oliver Chris Idephonse Kabalisa ha 21 anni, un sorriso largo, racconta della sua infanzia in Libia: «Mia madre lavorava alla Caritas nella chiesa di San Francesco a Tripoli. Non sono mai stato nei paesi di origine dei miei genitori, il Ruanda e il Burundi, anche loro erano profughi, io l’ho ereditato», sorride. Nascere e vivere nella condizione di profugo, di straniero. «Non ero libico, non ero musulmano, non mi mettevano nelle loro scuole. C’era sempre qualcuno che ci guardava, ci spiava. Le milizie venivano a casa nostra. Essere profugo ti fa sentire rinchiuso in uno spazio».
Anna Jabbour è mamma di una bambina di sei anni, Pamela. «Mi sono sposata nel 2014, ho fatto la segretaria e l’insegnante di sport». Vivere con la guerra. «Uscivamo di casa e non sapevamo se saremmo tornati o no. Abbiamo visto morire vicini e amici, le bombe come una pioggia, un evento quasi naturale, di disumano c’erano le persone che urlavano, le sirene, la distruzione. Come un incubo da cui non ti risvegli mai. Nel 2016 ci siamo rifugiati in Libano. A Beirut vivevamo in una casa con un’altra famiglia. C’era razzismo verso noi siriani, ma io e mio marito abbiamo salvato la nostra vita e la vita della nostra bambina».
«Amici cui volevo bene sono andati in mare, volevano essere liberi, hanno perso la vita», racconta Oliver. «Siamo quattro fratelli, mio padre ha pensato di farci partire, ma era una decisione difficile. Conoscevamo una famiglia che è partita, erano in tre con la mamma, sono morti tutti tranne una bambina, il papà è morto di dolore, di infarto».
Anna e Oliver sono arrivati in Italia con i corridoi umanitari organizzati dalla Comunità di Sant’Egidio. «Siamo arrivati in Italia nel 2020», dice Anna. «Non mi hanno chiesto chi sei, non ci siamo mai sentiti soli, ci hanno preso per mano e ci hanno insegnato a camminare. Fanno la cosa più bella del mondo, ti danno speranza, la cosa fondamentale per chi ha vissuto nel buio della guerra».
Oliver cucina per la mensa di via Dandolo, lavora in un grande albergo del centro, vuole studiare per diventare fisioterapista. Anna fa la badante di una signora anziana, adora il make-up, vorrebbe occuparsi dell’Italia in cui ora vive. «Non siamo qui per mangiare e per dormire, siamo qui per studiare, lavorare e collaborare. Vogliamo partecipare alla comunità che ci ha accolti».
Il 5 ottobre sono arrivati in Italia, con i corridoi umanitari di Sant’Egidio, dieci richiedenti asilo dai campi di Cipro, il paese europeo che ospita, in percentuale, il numero più alto di profughi. Con i corridoi umanitari sono giunti in Europa negli ultimi anni 5200 rifugiati, di cui 4450 in Italia, più 1800 cittadini ucraini. Dalla civiltà dell’accoglienza del rifugiato, del profugo, del migrante per guerra e per motivazioni economiche si riconosce la tenuta sociale di un paese, dell’Italia e dell’Europa.
La pienezza del tempo. Il nostro tempo è segnato dalle guerre, dal ritorno della minaccia nucleare, di cui si parla quotidianamente, l’appuntamento dell’umanità con la sua autodistruzione è entrato nell’agenda dei capi di governo e degli strateghi militari. La pienezza del tempo, di cui parlava Giovanni Paolo ii alla vigilia del terzo millennio citando la lettera di San Paolo Apostolo ai Galati, coincide per gli uomini e le donne dell’Afghanistan, della Siria, della Libia e dell’Ucraina e dell’intera Europa che ora convive con l’incertezza, il pensiero cattivo della devastazione che provi a scacciare e che ritorna, l’incubo della fine. La guerra decisa da poche mani che devasta la vita di milioni di persone.
Nel racconto di Oliver e di Anna resta incisa alla fine del nostro incontro questa parola in apparenza esile, fragile, eppure dura da spezzare, resistente. Speranza.
La speranza scavalca i confini, supera le identità nazionali e le divisioni tra i popoli, è la forza che spinge a cambiare paese per salvare la dignità di persone, il diritto di progettare un futuro che è molto più che sognare. A nome degli amici e dei familiari e di tutti gli sconosciuti di cui non sapremo mai nulla, che a milioni sono passati, sono stati spazzati via, sono polvere, sono cenere, riposano nel mare dei morti senza nome. Solo Dio li riconoscerà, li carezzerà, asciugherà le lacrime da ogni volto.
Anna Jabbour , Oliver Kabalisa e Marco Damilano