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Esistenze “scomodanti”

 Esistenze  “scomodanti”  ODS-004
05 novembre 2022

«Pare assai comodo scordare che Dio esiste; pare assai comodo scordare che i poveri esistono. Quella dei poveri, come quella di Dio, è una esistenza scomodante. Sarebbe meglio che Dio non fosse; sarebbe meglio che i poveri non fossero: poiché se Dio c’è, la mia vita non può essere la vita che conduco; se ci sono i poveri, la mia vita non può essere la vita che conduco»: parole “scomodanti” di don Mazzolari, scritte il 31 gennaio 1949.

Ieri sera all’Ostello della Caritas di Roma ho provato una sensazione straordinariamente ficcante; un brivido di gioia è corso tra le pieghe del mio essere all’abbraccio di Demetrio. Era tanto tempo che non ci incontravamo. Il suo sorriso, stampato sul suo volto incorniciato da una barba bianca fluente, ha messo in mostra lo sguardo limpido dell’uomo buono. I poveri esistono, ci sono, li abbiamo davanti agli occhi.

Il Parroco di Bozzolo, però, continuava il suo scritto: «Non vogliamo vedere Dio; non vogliamo vedere la morte; non vogliamo vedere il dolore; non vogliamo vedere i poveri. E sono invece le realtà più presenti, direi le presenze che non possiamo non vedere e non ricordare. Fino a quando riusciremo a tenere chiusi gli occhi davanti a queste certezze che l’uomo può anche non voler vedere?».

Fino a quando? Parlare dei poveri, dunque, è parlare di fede. La centralità dei poveri «è implicita nella fede cristologica, in quel Dio che si è fatto povero per noi per arricchirci mediante la sua povertà» diceva Papa Benedetto. Papa Francesco ha aggiunto: «Il nostro impegno non consiste esclusivamente in azioni o programmi di promozione e assistenza; quello che lo Spirito mette in moto non è un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione rivolta all’altro, considerandolo come un’unica cosa con se stesso».

I grandi santi della carità — san Vincenzo De Paoli, san Camillo de Lellis, madre Teresa di Calcutta — non si sono messi a fare per fare, per realizzare la loro esuberanza. Si sono messi a lavorare quando hanno percepito — e solo la fede ce lo svela — che nei poveri era presente quel Cristo che parlava dentro di loro.

Raccontano i biografi di san Camillo de Lellis che una volta stava accanto ad un ammalato terminale: tumore alla lingua e al palato. Raccontano che quest’uomo mandava un fetore talmente ripugnante, terribile, che anche gli stessi collaboratori di san Camillo scappavano tutti, non se la sentivano di stargli vicino. Camillo se lo stringeva accanto a sé e ripeteva queste parole, rivolte a quell’uomo: «Signore, Signore, dimmi che cosa posso fare per sollevarti un po’ dalla tua sofferenza». Signore, Signore… Chiamava Gesù quell’uomo fra le sue braccia, impregnandosi di quel puzzo terribile. Eppure, a lui quel puzzo terribile parlava, parlava di un bisogno estremo di questa persona, che era per lui il bisogno estremo di Gesù sulla croce quando dice «Ho sete». Certamente le parole di Gesù «Qualunque cosa farete al più piccolo dei vostri fratelli lo avete fatto a me» gli sono risuonate nella veridicità del loro contenuto. E ci ha creduto con i fatti. Così come ci aveva creduto, molti secoli prima, san Francesco abbracciando e baciando il lebbroso. Non per dimostrare la sua bravura, la sua forza, ma perché quel lebbroso era il suo Signore, e quella carne martoriata dalla lebbra gli apparteneva.

del cardinale Enrico Feroci