· Città del Vaticano ·

Nel ricordo del cardinale Paul Poupard

L’entusiasmo e la fatica
la sfida per la Chiesa
e per il mondo ieri come oggi

 L’entusiasmo e la fatica la sfida per la Chiesa e per il mondo ieri come oggi  QUO-235
13 ottobre 2022

Lo sguardo del cardinale Paul Poupard, 92 anni, s’illumina appena pronuncio quella data: «11 ottobre 1962» e gli occhi celesti mi guardano, sprizzando gioia, un entusiasmo giovane, che poi è il tema della nostra conversazione.

«Quel giorno me lo ricordo come se fosse ieri, c’era stato un temporale e poi il cielo era diventato blu e bianco. Io lavoravo, da tre anni, in Segreteria di Stato al terzo piano e ricordo che sceso al portone di bronzo vidi questa sfilata di vescovi, una scia tutta bianca: è stata come una visione, qualcosa di incredibile. È stato vedere la Chiesa e vederla davvero così com’era. Come diceva da giovane il cardinale Newman, c’è una differenza tra la Chiesa pensata quella vissuta».

«Poi mi rivedo nella basilica di San Pietro nel reparto dove erano state raccolte le autorità, i politici, i diplomatici: ricordo Maurice Couve de Murville, ministro degli Esteri di De Gaulle, protestante, tutti erano inginocchiati, lui l’unico in piedi. Ma soprattutto il mio ricordo è quello di Papa Giovanni, questo Papa anziano, e lo rivedo col suo volto sereno che entra nella basilica Vaticana, con una voce incredibilmente giovane fa un discorso fiume; ha parlato tanto, non ricordo quanto, e con quel passaggio centrale in cui ha stigmatizzato i profeti di sventura invitando ad aprirsi ad una speranza che è sempre più forte di ogni pessimismo. E ricordo che questo discorso fece una grande impressione tra i politici e i diplomatici, offrendo a tutti la visione che nel bel mezzo delle turbolenze del mondo c’era una Chiesa viva, ancora dotata di questa capacità unica di mettere insieme rappresentanti di tanti Paesi, spesso tra loro distinti e distanti se non ostili. Questa è la mia visione, oggi, ancora precisa, nitida. Al tempo stesso resta per me ancora oggi molto difficile descrivere, posso solo evocare quell’entusiasmo, che fu qualcosa di inaudito, e di contagioso».

Quale fu il primo impatto dentro la Chiesa?

I vescovi dopo essere stati in udienza venivano in Segreteria di Stato e chiedevano cosa fosse questo concilio e cosa bisognasse fare, e lui, il Papa, che amava le immagini sacre, parlava di sinfonia, di edificio sacro ma si affidava anche ai gesti e quindi andava alla finestra, l’apriva e diceva: «Ecco il Concilio! Dobbiamo aprire le finestre e parlare a tutti dicendo: cari fratelli venite tutti, la Chiesa non solo è qui aperta che vi aspetta, ma è la vostra casa!». Questa convinzione forte del Papa mi ha sempre guidato attraverso gli anni e i compiti che poi ho assunto negli anni successivi, fino ad oggi.

Fu quindi come un fulmine a ciel sereno?

Da un certo punto di vista direi proprio di sì. E inevitabilmente ci fu anche qualche incomprensione all’interno della Chiesa. Ricordo che un giorno mentre uscivo dalla Terza Loggia, c’erano, lungo il corridoio, come si diceva allora, due “alti prelati” che discutevano tra loro. Non mi vedevano. E dicevano «Mah... questo concilio, ma perché? Ci siamo noi qui». Ho raccontato una volta questo episodio a san Giovanni Paolo ii e lui me ne chiedeva la ragione ed io gli dissi: «Non lo so, so che l’ho vissuto e lo racconto» e lui rimase a guardarmi, un po’ pensoso.

Per lei che veniva dalla Francia, si può dire che un po’ di aria del Concilio l’aveva già respirata? Mi riferisco a quell’influenza che arrivava dalla teologia francese, dai gesuiti De Lubac e Danielou, dal domenicano Congar...

«È vero, ci fu in quel periodo tutta una elaborazione di pensiero. Dopo, negli anni ‘70 divenni rettore dell’Istituto cattolico di Parigi e ho visto che c’era come un “laboratorio” con tanti pensieri all’opera. Lei ha citato le due figure principali, così diverse tra loro, Henri De Lubac e Yves Congar, ma erano tanti i teologi molto attivi e operosi in quegli anni e si può ben dire che tutti loro hanno fatto il concilio. Ricordo che una volta alla settimana c’era una riunione al Centro culturale di San Luigi dei Francesi, aperto a tutti; era troppo piccolo per contenere tutti, soprattutto i vescovi latino-americani che erano tanti. Andavamo lì per capire meglio quello che stavamo vivendo, che in qualche modo era una novità nella vita della Chiesa bimillenaria che ha avuto 20 concili ecumenici. La novità era che nel passato i concili, pensiamo al concilio di Trento o al Vaticano i, erano stati convocati per porre fine ad un’eresia o a uno scisma e invece questo no. Oggi si parla molto di sinodalità, all’epoca non era una parola diffusa, ma si è vissuto in modo forte questa dimensione sinodale e quello che ho ritenuto (e ancor oggi ritengo) è che è stato un rinnovamento della mia vita nella Chiesa. Questo è il punto fondamentale. La mia impressione è, come dicevano i latini, quella di «res nostra agitur»: era il nostro turno nella storia, il momento opportuno, intenso, fecondo; la storia procedeva. Il concilio non era qualcosa di cui si parlava, un “argomento”, ma coincideva con la vita. Questo poi l’ho rivisto, anzi incontrato, con Jorge Mario Bergoglio quando l’ho conosciuto.

Il fulmine illumina per un attimo, poi di nuovo torna il buio. È stato solo un evento il Concilio?

Come tutte le cose umane anche la cose della Chiesa e quindi anche il concilio ha conosciuto fasi alterne, con momenti in avanti e indietro, con picchi e rallentamenti, con speranze e delusioni, gioie e fatti tristi... ma la sensazione dominante è che il concilio Vaticano ii apriva una nuova stagione nella Chiesa. Una sensazione che comprende anche le difficoltà e le incomprensioni, soprattutto all’inizio, ma che registra anche il fatto che dopo è cresciuto l’entusiasmo ed è divenuta la sensazione, come avrebbe detto lo storico francese Fernand Braudel, di collaborare a un evento storico. Quell’entusiasmo che rimuoveva la routine, la polvere del quotidiano, e ci portava avanti.

Uno degli elementi forti del concilio fu il ruolo dei laici, un nome per tutti: Jacques Maritain che fu invitato a partecipare...

«Ricordo l’8 dicembre 1965, la chiusura del concilio, e vedo Paolo vi raggiante sul sagrato della basilica di San Pietro che consegna il messaggio del concilio proprio a Maritain e con lui c’era anche Jean Guitton e altri... era un periodo intenso e fecondo in Francia per il pensiero. Mi viene in mente ora una figura molto importante in quel tempo: il padre domenicano Louis-Joseph Lebret, ideatore negli anni ‘40 del movimento e della rivista Économie et humanisme e invitato come esperto al concilio Vaticano ii. Il suo contributo fu prezioso perché collaborò all’elaborazione della costituzione Gaudium et spes e anche se morì subito dopo il concilio la sua influenza durò a lungo, penso ad un’enciclica come Populorum progressio, impensabile senza questa figura oggi un po’ dimenticata. Lebret pensava la Chiesa in un nuovo scenario di un mondo che cambiava e rifletteva sul tema dello sviluppo dei popoli.

Ha fatto riferimento a Jorge Mario Bergoglio e al suo rapporto con il concilio...

Ricordo il mio primo incontro col padre Bergoglio nel 1985 a Buenos Aires. Già durante quella nostra conversazione e poi dopo negli anni successivi, mi ha sempre trasmesso la sensazione di trovarmi di fronte a un uomo che, più di altri, ha coniugato vita e storia ed in particolare ha integrato nella vita proprio questa storia del concilio Vaticano ii. Ne sono profondamente convinto. Altri parlano del concilio come si può parlare della ii Guerra mondiale, come si trattasse di un tema, di un argomento, non così per Bergoglio per cui il concilio non è storia del passato ma è vita da vivere. E lui lo vive profondamente al punto che, mi sembra, quasi faccia fatica a far partecipare la Chiesa a questa sua esperienza vitale, a questa sua visione del concilio. Vedo infatti una certa superficialità di giudizio, sia tra i detrattori e gli adulatori di questo pontificato; mi sembra infatti che manchi lo sforzo per arrivare al cuore del pensiero del Papa e soprattutto per viverlo e metterlo in pratica. Il fatto che il Papa non citi poi tanto il concilio, indica proprio che lui non ha bisogno di citarlo, perché lo ha integrato, e lo vive. Credo che non si possa capire il suo pontificato senza questo legame con il concilio, e penso che i sinodi voluti dal Papa possono rivelarsi un’occasione per la Chiesa di capire meglio quello che lo Spirito ispira al Papa nella sua vita e nella sua azione.

Il mondo oggi è cambiato e come Papa Giovanni ebbe l’intuizione di come fronteggiare questo mondo nuovo, ci vorrebbe oggi di nuovo una cosa simile per affrontare le nuove sfide. Non si può però sempre aprire un concilio, anche per questo Paolo vi si è “inventato” il Sinodo dei vescovi. Io spero e credo che questo porterà frutto, perché lo Spirito è sempre all’opera, «Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18, 20), sono convinto quindi che da queste adunanze arriverà un risveglio, una scossa, per una Chiesa che si è un po’ addormentata ed è intorpidita.

Torniamo all’11 ottobre del ‘62: sono proprio i giorni della crisi di Cuba, quali sono i suoi ricordi di quei giorni, oggi purtroppo così attuali?

Nel momento in cui il mondo stava precipitando verso l’abisso la Chiesa apriva una stagione di speranza, lo Spirito era veramente all’opera. Ricordo di quei giorni il grande impegno del Papa che cercò e ottenne il dialogo con “le due K”, Kruscev e Kennedy, e ricordo la trepidazione per conoscere che impatto avesse l’opera del Papa, i suoi messaggi e appelli... Mi ha sempre colpito soprattutto lo stile di Papa Roncalli, che volgeva tutto in positivo, anche in quel momento drammatico invitando a riflettere che i grandi uomini di Stato della storia non sono quelli che fanno la guerra, ma quelli che invece fanno la pace. Devo riconoscere che quello stile non è per me solo un ricordo, ma qualcosa che poi ho sempre vissuto e continuo a vivere in me. Oggi viviamo un periodo drammaticamente simile a quello di sessant’anni fa. Però noi uomini abbiamo visioni limitate, ma il buon Dio è sempre capace di suscitare il bene in modo nascosto e misterioso. Mi viene in mente la battuta del teologo Teilhard de Chardin: l’avvenire è migliore dei nostri passati.

di Andrea Monda