· Città del Vaticano ·

Hic sunt leones
Cambiamenti climatici, pandemia e conflitti si ripercuotono sullo sviluppo del continente

L’economia africana al bivio

 L’economia africana al bivio  QUO-224
30 settembre 2022

L’economia dell’Africa subsahariana continua ad essere fortemente penalizzata dalla crisi ucraina, dai cambiamenti climatici e dalla pandemia. Si tratta di tre fattori che condizionano la risposta dei singoli Stati alle sfide strutturali dello sviluppo nella macroregione. Ne consegue l’esigenza, da parte dei governi subsahariani, di reperire ingenti risorse finanziarie.

Purtroppo gli spazi di manovra sono stretti per l’andamento ancora poco brillante delle economie nazionali, mentre le ripercussioni dell’attuale congiuntura si sono acuite su indicatori macroeconomici come inflazione, disavanzo e debito pubblico. Potremmo dunque dire che nel suo complesso lo scenario è caratterizzato da una sorta di circolo vizioso che richiede un più deciso intervento da parte dei player internazionali. Ma andiamo per ordine.

Se da una parte è vero che l’impatto economico del covid-19 e della guerra in atto nell’Europa orientale non erano facilmente prevedibili, dall’altra queste crisi planetarie sono venute drammaticamente alla ribalta quando già da tempo la macroregione subsahariana nel suo complesso aveva preso un’andatura economica più lenta. In effetti già a partire dal biennio 2015-16, le condizioni delle economie nazionali si erano indebolite, dando segnali di vulnerabilità a shock esterni.

Secondo l’International Monetary Fund World Economic Outlook database, rispetto al picco di crescita toccato con il 6,9 per cento del 2010, si era scesi vistosamente fino al modesto 1,5 per cento del 2016. Successivamente, nel triennio 2017-2019, il tasso medio subsahariano del Pil si era poi assestato sul 3,1 per cento. Il forte rallentamento della crescita nel 2016 e la leggera risalita nel triennio successivo dipesero per riflesso dalla speculazione finanziaria sulle commodity (materie prime), dagli effetti del global warming, dalla riduzione del flusso di investimenti diretti esteri (Ide) e dallo stress causato dall’indebitamento di alcuni Paesi.

Quando la pandemia colpì la macroregione nel 2020, l’intero continente registrò una perniciosa recessione stimata attorno al -1,7 per cento, la peggiore da oltre 25 anni. A questa decrescita contribuì in particolare il declassamento del debito sovrano operato dalle agenzie di rating statunitensi — Moody’s, Standard&Poor’s e Fitch — nei confronti di molti Paesi della macroregione. Una scelta questa fortemente criticata da Hippolyte Fofack, direttore della ricerca e della cooperazione internazionale presso l’African Export-Import Bank: «Oltre il 56 per cento dei Paesi africani valutati da almeno una delle tre grandi agenzie di rating del credito è stato declassato al culmine della pandemia nel 2020, mentre solo il 9,2 per cento in Europa e il 28 per cento in Asia, portando la media globale al 31,8 per cento. Il downgrade sproporzionato tra Africa e resto del mondo si è verificato nonostante il fatto che nel complesso i Paesi africani abbiano mostrato una maggiore resilienza alla crescita di fronte alla recessione globale innescata dalla pandemia, contraendosi a meno del 2 per cento, contro una media mondiale del 3,3 per cento».

Nel contesto di una forte ripresa dell’economia globale nel 2021 (+5,9 per cento), l’Africa subsahariana è cresciuta di un 3,7 per cento secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi). Crescita guidata da una parziale ripresa del turismo, da un rimbalzo dei prezzi delle materie prime e dall’annullamento delle restrizioni indotte dalla pandemia. L’espansione, secondo le previsioni del Fmi, sarebbe dovuta proseguire nel biennio successivo (+3,8 per cento atteso nel 2022 e +4,1 per cento nel 2023). Ma attenzione: il rischio è che quanto oggi sta avvenendo sul palcoscenico internazionale, possa smentire queste attese. Lungi dal voler essere fautori di sventure, è inevitabile dichiarare un sano realismo rispetto a quanto sta avvenendo non solo in Africa, ma nel resto del mondo. Se non vi saranno interventi strutturali da parte dei grandi attori internazionali, nei prossimi anni, anziché accelerare il tentativo di agganciare un giorno le economie avanzate, l’Africa subsahariana rischia di vedere aumentare il gap con i Paesi industrializzati. I risvolti sulle condizioni di vita nella macroregione si stanno dispiegando pienamente nelle fasce più fragili delle popolazioni africane, in particolare con l’aumento della povertà estrema e dell’insicurezza alimentare e il deterioramento di salute e istruzione. Premesso che il momento africano attuale va necessariamente letto con lo sfondo delle stagioni economiche precedenti che abbiamo poc’anzi illustrato, occorre evitare di cadere dalla padella alla brace. Mai come oggi, alla luce delle sollecitazioni impresse dal magistero di Papa Francesco sull’economia mondiale, occorre andare al di là delle logiche liberiste che hanno avuto un impatto devastante nell’acuire il divario tra nazioni ricche e povere.

Qui non si tratta semplicemente di rinegoziare termini e scadenze del debito contratto da questo o quel Paese, piuttosto che rinunciare a una parte di quanto dovuto al creditore. Non basta contrastare la speculazione erogando aiuti, sapendo bene in partenza che la finanziarizzazione dell’economia è tale per cui si continuerà a chiedere più del dovuto a qualsivoglia debitore. Oggi in Africa, l’andamento dei prezzi è caratterizzato da una volatilità fuori controllo causata in gran parte dalla compravendita dei future. Si tratta di prodotti finanziari che vengono utilizzati dagli speculatori come vere e proprie scommesse all’insegna del rialzo o del ribasso dei prezzi. Come stigmatizza opportunamente l’economista Paolo Raimondi: «Quando i mercati percepiscono un possibile futuro aumento dei prezzi, i future speculativi operano come dei moltiplicatori. Lo stesso avviene per le attese di riduzione dei prezzi. Il volume dei future può determinare le attese di crescita o di ribasso e di conseguenza gli andamenti del mercato. Com’è noto, questi prodotti speculativi non comportano la reale transazione delle merci trattate. Solo il 2 per cento lo fa! Alla scadenza del contratto, o prima se è rinegoziato, è pagata soltanto la differenza. Nel frattempo, però, l’effetto della speculazione si è trasferito sui prezzi delle reali operazioni di compravendita». Gli operatori non hanno niente a che fare con il business cerealicolo o quello di altre commodity, trattandosi di banche di investimento, hedge fund, fondi pensione e assicurazioni. Gli artefici sono dunque soggetti fuori dai circuiti della produzione che usano i future per fare speculazione finanziaria. Una pratica che fino agli anni Novanta non era consentita su questi beni perché l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) non lo consentiva. Poi le normative non sono state più stringenti, per così dire, all’insegna della de-regulation, consentendo l’utilizzo di strumenti finanziari anche per beni come il grano e le fonti energetiche che alimentano l’intera popolazione mondiale.

Al di là del sostegno temporaneo in un momento di necessità immediate ed emergenza acuta, la sostenibilità del complesso economico africano impone riflessioni, interventi e trasformazioni di carattere più strutturale e di lungo termine che non tengano conto solo dell’Africa, ma anche dei meccanismi che regolano l’economia mondiale. Un esempio emblematico viene proprio dal settore dell’agribusiness. Non poche società multinazionali, approfittando della crisi alimentare in Africa, stanno, di fatto, lanciando una sorta di opa sul futuro del continente perseguendo la strategia degli ogm (organismi geneticamente modificati).

Al di là del pur lecito principio cautelativo — che, se applicato, dovrebbe valere per tutti, ricchi e poveri — il vero problema è rappresentato dal diritto di proprietà intellettuale sulle sementi Ogm, che indiscutibilmente, anche alla luce dei principi dell’etica sociale della Chiesa Cattolica, non farebbe che acuire la dipendenza dei Paesi poveri dai Paesi ricchi. L’opposizione a questo trend pro-ogm ha trovato comunque dei paladini in personaggi del calibro del professor Adolf Mkenda, ex ministro dell’Agricoltura e attualmente ministro dell’Istruzione della Tanzania, primo Paese africano ad aver bandito gli ogm nel gennaio del 2021.

«Se lasciassimo entrare semi coperti da proprietà intellettuale nel nostro Paese — ha dichiarato Mkenda — si innescherebbe un meccanismo di dominio del mercato da parte di poche compagnie che obbligherebbero i contadini locali a comprare i loro semi ogni anno creando così dipendenza». E cosa dire del fenomeno del land grabbing? Considerando che il 75 per cento della produzione alimentare viene dall’agricoltura familiare e che solo il 15 per cento degli investimenti si basa sul consenso libero, previo e informato delle comunità locali, è evidente che occorre riaffermare il primato della persona umana sul mercato. La posta in gioco è alta, soprattutto in questi tempi di crisi globale.

di Giulio Albanese