· Città del Vaticano ·

In «La confessione», saggio autobiografico del grande scrittore russo

Tolstoj e la proto-teologia del popolo di Francesco

 Tolstoj e la proto-teologia del popolo di Francesco   QUO-206
09 settembre 2022

Oggi ricordiamo la nascita, il 9 settembre 1828, di Lev Nikolàevič Tolstoj, o Leone Tolstoj, insieme alla sua vasta opera e alla sua profonda e complessa vita cristiana ortodossa. Fu sicuramente nel suo saggio di tipo autobiografico La confessione che l’autore di Guerra e Pace espresse la sua drammatica ricerca per trovare un senso trascendente alla vita. Lo scrittore russo si trovava davanti a un crocevia spirituale profondo e lacerante. Di fatto, all’età di cinquant’anni visse una crisi di fede esistenziale che lo portò sull’orlo del suicidio. Nel suo peregrinare incassato tra le sue esperienze religiose tradizionaliste e le proprie e altrui contraddizioni fra la fede e l’agire cristiano, scrisse questo documento fondamentale. Come vedremo in questa breve riflessione su La confessione, il suo pellegrinare trovò pace e termine nella scoperta della fede semplice del popolo povero e lavoratore, nella sua coerenza e nel suo senso della trascendenza. Espresse così, senza saperlo, quella che più di due secoli dopo sarebbe stata chiamata la “teologia del popolo”. Questa chiave ermeneutica della fede cristiana, nata in America latina, attraversa la visione evangelizzatrice e missionaria di Papa Bergoglio.

È in Evangelii gaudium che Papa Francesco sviluppa il suo pensiero universale dell’opera evangelizzatrice da e per il popolo semplice, e di quest’ultimo come soggetto mitico teologico. In questa sua esortazione apostolica troviamo paragrafi come il seguente: «Per questo desidero una Chiesa povera per i poveri. Essi hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro. La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa. Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro» (n. 198).

Questa base di fede del popolo semplice e lavoratore, che Tolstoj presentò in contraddizione e in opposizione alla cerchia a cui lui apparteneva, lo portò a scoprire il vero significato della vita. Lo espresse così: «Tutta la vita dei credenti della nostra cerchia era in contraddizione con la loro fede e tutta la vita delle persone credenti e lavoratrici era la conferma di quel senso della vita che veniva dato dalla conoscenza della fede. Ed io cominciai a guardare attentamente la vita e le credenze di quegli uomini, e più le studiavo, tanto più mi convincevo che essi possedevano la vera fede e che la fede era per loro indispensabile ed essa sola dava loro il senso della vita e la possibilità di vivere. Contrariamente a ciò che vedevo nella nostra cerchia, dove la vita senza la fede è possibile, e dove a mala pena uno su mille si professa credente, nel loro ambiente a mala pena vi è un non credente su mille. Contrariamente a quello che vedevo nella nostra cerchia, dove tutta la vita trascorre nell’ozio, nei divertimenti e nella scontentezza della vita, io vedevo che tutta la vita di quegli uomini trascorreva in una dura fatica e che essi erano meno scontenti della vita che non i ricchi. Contrariamente al fatto che gli uomini della nostra cerchia facevano resistenza e protestavano contro la sorte a causa delle privazioni e delle sofferenze, questi uomini accettavano le malattie e i dolori senza alcuna perplessità, senza alcuna ribellione, bensì con tranquilla e salda convinzione che tutto ciò doveva essere così e non poteva essere altrimenti, che tutto ciò era bene. Contrariamente a noi, che quanto più siamo intelligenti tanto meno comprendiamo il senso della vita, e vediamo una specie di beffa malvagia nel fatto di dover soffrire e morire, questi uomini vivono, soffrono e si appressano alla morte con tranquillità, il più delle volte con gioia». Nell’esortazione apostolica sopracitata, Papa Francesco ricorre a immagini di contrasto geometrico sociale ed ermeneutico come il poliedro per sostenere questa ricerca del bene comune spirituale della teologia del popolo. «Il modello non è la sfera, che non è superiore alle parti, dove ogni punto è equidistante dal centro e non vi sono differenze tra un punto e l’altro. Il modello è il poliedro, che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità. Sia l’azione pastorale sia l’azione politica cercano di raccogliere in tale poliedro il meglio di ciascuno. Lì sono inseriti i poveri, con la loro cultura, i loro progetti e le loro proprie potenzialità. Persino le persone che possono essere criticate per i loro errori, hanno qualcosa da apportare che non deve andare perduto. È l’unione dei popoli, che, nell’ordine universale, conservano la loro peculiarità; è la totalità delle persone in una società che cerca un bene comune che veramente incorpora tutti. A noi cristiani questo principio parla anche della totalità o integrità del Vangelo che la Chiesa ci trasmette e ci invia a predicare. La sua ricchezza piena incorpora gli accademici e gli operai, gli imprenditori e gli artisti, tutti. La “mistica popolare” accoglie a suo modo il Vangelo intero e lo incarna in espressioni di preghiera, di fraternità, di giustizia, di lotta e di festa» (nn. 236 e 237).

Allo stesso modo Tolstoj riprende il libro dell’Ecclesiaste e la futilità o vanità che Salomone denuncia nel corso del racconto biblico sapienziale. Ricorre anche lui all’immagine dei contrasti, ma ora con uno sguardo tragico ma al contempo pieno di speranza nella fede semplice dei popoli nobili. «Contrariamente a ciò che avviene nella nostra cerchia, dove una morte quieta, una morte senza terrore e disperazione è una eccezione rarissima, una morte inquieta, ribelle, triste è una rarissima eccezione tra il popolo. E di questi uomini, privati di tutto ciò che per me e per Salomone costituisce l’unico bene della vita e che ciononostante godono della più profonda felicità, ve n’è una moltitudine immensa... Esaminai la vita di enormi masse di uomini, sia di quelli passati sia di quelli contemporanei... In completa contrapposizione alla mia ignoranza conoscevano il senso della vita e della morte, sopportavano privazioni e sofferenze, vivevano e morivano vedendo in ciò non la vanità, ma il bene. Ed io fui preso da amore per quegli uomini. Quanto più penetravo nella loro vita di uomini viventi e nella vita degli uomini che erano già morti, dei quali leggevo o sentivo raccontare, tanto più io li amavo, e tanto più mi diventava facile vivere».

Al numero 124 di Evangelii gaudium, Papa Francesco ripercorre da Aparecida fino ai nostri giorni un pellegrinaggio di pietà popolare che s’incarna nel popolo e che considera la vita e la cultura dei semplici come oggetto missionologico finale e definitivo. «Nel Documento di Aparecida si descrivono le ricchezze che lo Spirito Santo dispiega nella pietà popolare con la sua iniziativa gratuita. In quell’amato continente, dove tanti cristiani esprimono la loro fede attraverso la pietà popolare, i Vescovi la chiamano anche “spiritualità popolare” o “mistica popolare”. Si tratta di una vera ‘spiritualità incarnata nella cultura dei semplici’. È “un modo legittimo di vivere la fede, un modo di sentirsi parte della Chiesa, e di essere missionari”; porta con sé la grazia della missionarietà, dell’uscire da sé stessi e dell’essere pellegrini: “Il camminare insieme verso i santuari e il partecipare ad altre manifestazioni della pietà popolare, portando con sé anche i figli o invitando altre persone, è in sé stesso un atto di evangelizzazione”. Non coartiamo né pretendiamo di controllare questa forza missionaria!».

Alla fine del capitolo sopracitato della sua opera spirituale autobiografica, Leone Tolstoj peregrina tra questo popolo semplice e ricorre alla comprensione della sua proto-teologia per accettare il senso mistico e “inculturale” della vita spirituale piena. «Io capii che non si doveva cercare un senso in tutto ciò. E invece quel che faceva il popolo lavoratore, il quale costruisce la vita, mi appariva come l’unica occupazione degna di rispetto. E capii che il senso che veniva attribuito a quella vita era la verità, e l’accettai». 

di Marcelo Figueroa