· Città del Vaticano ·

Lettere dal Direttore

Invincibile

Un bambino siriano di 5 anni, nato senza braccia e gambe, immortalato sorridente con il padre, ...
20 agosto 2022

Qualche giorno fa mia moglie ed io siamo andati a Siena e dopo essere stati bombardati dalle bellezze della città, la sera, grazie all’invito dell’arcivescovo Paolo Lojudice, abbiamo subito il “bombardamento” di un altro tipo di bellezza. Don Paolo ci ha portato ad Arbia, a pochi chilometri da Siena, presso un centro di accoglienza per famiglie. A gestirlo sono Maria e Paolo che, con modi spicci e cuore grande, realizzano quel bene nascosto che fa fiorire e progredire il mondo intero, perché, come aveva intuito Tolkien, «ciò che è veramente importante è sempre nascosto ai contemporanei, e i semi di ciò che deve essere germogliano tranquillamente nel buio in qualche angolo dimenticato».

In questo angolo dimenticato della campagna senese abbiamo incontrato cinque famiglie di profughi, rifugiati, migranti, emarginati, gli ultimi della società di cui qualcuno, in genere i “penultimi”, si prendono carico. E lì abbiamo ri-visto, perché tutto il mondo lo ha “visto”, il piccolo Mustafa. È il bambino siriano di sei anni che, senza braccia né gambe a causa delle bombe al fosforo usate in quella guerra dimenticata e ancora drammaticamente in corso, è stato immortalato mentre viene sollevato dal padre (anche lui senza una gamba per l’esplosione di una bomba “normale”) in quella foto che ha fatto il giro del mondo qualche mese fa diventando in poco tempo “la foto dell’anno”.

Una cosa è vederlo in fotografia, un’altra cosa è incontrarlo, Mustafa. Quando siamo arrivati era tutto intento a giocare con un videogame su un tablet: con il suo “dito” cliccava e vinceva. Ci ha guardato sollevando lo sguardo e, ridendo, ha esclamato in perfetto italiano: “Ciao a tutti!”. Mustafa ride spesso, e non sta mai fermo. Lo abbiamo visto salire e scendere le scale (non ho capito ancora come, ma il suo corpo è di fatto un potente fascio di muscoli), montare su uno skateboard e lanciarsi a gran velocità da una parte all’altra della stanza pieno di gioia; lo abbiamo visto, anzi, mia moglie lo ha visto (le donne hanno sguardi più attenti) che, con la testa, dondolava la culla della sorellina nata da appena un mese: l’hanno chiamata Maria, come la responsabile della casa.

Siamo tornati a casa felicemente scossi da tutta questa vitalità, in qualche modo “interrogati”.

A me è venuto in mente quel bel libro, Bianco su nero, di Ruben Gallego, scrittore cileno nato nelle condizioni più o meno di Mustafà ma che nel suo racconto vuole scrivere «della forza che è in ciascuno di noi. Della forza che supera qualunque barriera e vince» perché, aggiunge: «Sono persuaso che sulla bilancia dell’umanità la gioia di un bambino per un giocattolo nuovo valga molto più di qualunque vittoria militare.

Questo libro narra della mia infanzia. Atroce, terribile, ma che infanzia resta. Per continuare ad amare il mondo, per crescere e diventare adulto, a un bambino serve davvero poco: un pezzo di lardo, un panino col salame, una manciata di datteri, il cielo azzurro, un paio di libri e una parola affettuosa. Basta questo. Basta e avanza». Ruben col suo libro e Mustafa con il suo sorriso scrivono “bianco su nero”, fanno vincere la luce sul buio.

I versi scritti nel 1954 da Albert Camus non hanno bisogno di parole di commento, se non sottolineare che quello che conta qui sono le prime due parole della poesia, parte tutto da lì:

Mia cara,
nel bel mezzo dell’odio
ho scoperto che vi era in me
un invincibile amore.
Nel bel mezzo delle lacrime
ho scoperto che vi era in me
un invincibile sorriso.
Nel bel mezzo del caos
ho scoperto che vi era in me
un’ invincibile tranquillità.
Imparavo finalmente,
nel cuore dell’inverno,
che c’era in me
un’invincibile estate.
E che ciò mi rende felice.
Perché afferma che non importa
quanto duramente il mondo
vada contro di me,
in me c’è qualcosa di più forte,
qualcosa di migliore
che mi spinge subito indietro.

di Andrea Monda