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La domanda di Archie e le nostre (troppo facili) risposte

 La domanda di Archie  e le nostre  (troppo facili) risposte  QUO-179
06 agosto 2022

La vicenda del piccolo Archie Battersbee, il dodicenne inglese che è in coma dal 7 aprile, al quale è stata diagnosticata la morte cerebrale e al quale, dopo la sentenza della Corte Suprema, verrà staccata la spina dei macchinari che lo tengono in vita per il “migliore interesse” del paziente, ci interroga da vicino. Può mettere a disagio ma in fondo è importante, anzi essenziale, interrogarsi sempre, essere interrogati. Anche perché, come ha detto il Papa parlando ai giovani dell’Alpha Camp venerdì scorso, «Dio ama molto le domande; e in un certo senso, le ama più delle risposte. Perché? Ma è chiaro: perché le risposte sono chiuse, le domande sono aperte».

Bene, ma cosa vuol dire essere interrogati “da vicino”? Strana espressione.. forse significa che l’interrogativo tocca la nostra coscienza, la parte più intima, interior intimo meo, della nostra persona. Partiamo da qui per dire che su questa vicenda è davvero difficile dire qualcosa “da lontano”. Come si suol dire “bisogna trovarcisi dentro”. Il problema è che siamo tutti “lontani”. Solo Archie è vicino, è “dentro”, “presso di sé”.

 Ma ecco che in fondo tutta la questione nasce da questo punto, dall'asserzione che trovandosi in stato di morte cerebrale anche egli non sarebbe più presso di sé, non sarebbe più in sé.  Archie stesso non sarebbe più vicino e così anche i genitori non sarebbero più  vicini ma lontani, così come a maggior ragione anche i  medici e, ancora di più, lo Stato con le sue leggi e le sue sentenze (se poi ha senso parlare in termini personali relativamente allo Stato).

Proviamo invece a stare dentro la domanda sulla vita che Archie ci pone, mettendo in moto tutto della nostra persona: la testa, il cuore e le mani secondo la nota scansione usata spesso dal Papa.

La vita, e quindi anche la morte, riguarda infatti tutta la complessità dell’esistenza umana globalmente intesa. Una volta la morte era accertata con l’interruzione del battito cardiaco, oggi con la fine dell’attività cerebrale. Cambiano le epoche e si sposta il focus della nostra osservazione. Archie ci ricorda come vita e morte siano intrecciate, e invece noi tendiamo a separarle. Abbiamo spezzettato la ricchezza dell’esperienza umana e separato i pezzi, o addirittura contrapposti. Abbiamo, ad esempio, contrapposto la vita e la morte. Siamo tutti figli di Epicuro e della sua intrigante ma ingannevole sentenza sul fatto che la morte non ci riguarda, perché quando lei c’è noi non ci siamo e viceversa. Troppo facile.

Facciamo allora un passo indietro e torniamo ad Archie a cui se verrà “staccata la spina” sarà per una decisione, in ultima analisi, dei medici. Questo particolare fa ricordare le parole pronunciate una ventina d’anni fa dal cardinale Martini sul fatto che la società occidentale contemporanea ha medicalizzato e ospedalizzato i due momenti fondamentali della vita umana: la nascita e la morte. Si nasce e si muore in ospedale. Questo però non è solo un fatto logistico, perché i luoghi “contano”, condizionano, determinano. Nascere e morire in casa, eventualità che fino ai nostri nonni era la regola, era senz’altro meno sano e sicuro. Ma era umano. Si nasceva e si moriva nel letto in cui si era stati concepiti e si veniva prima accolti e poi accompagnati da una famiglia che ti aveva preceduto e atteso e poi avrebbe proseguito il cammino ricevendo da te il tuo testimone/testimonianza.

Oggi sembra che qualcosa si sia perso. A vantaggio di altri criteri, valori, che sono appunto l’abolizione della sofferenza e la primazia della sanità e la sicurezza. Da qui la “burocratizzazione” della nascita e della morte che diventano protocolli in cui ciò che conta è la procedura, la forma, l’involucro. E ciò che alla fine non conta quanto dovrebbe sono i valori umani (e qui emerge inquietante un’altro interrogativo: i valori sono importanti ma cos’è che, in fondo, dà valore ai valori?). Se il “valore” diventa la procedura e il suo funzionamento allora tutto è più freddo, anonimo, asettico. Conta il fatto che il procedimento scorra senza intoppi, perché tutto deve “funzionare”. Anche il nostro corpo deve funzionare senza intoppi, mantenendo il livello massimo delle prestazioni, delle performances.

Tutto questo rischia di far perdere il significato dell’esperienza umana che è, anche, un’esperienza segnata da grandi gioie, la nascita, e da grandi dolori, la sofferenza e la morte. Esperienze che in genere sono mischiate insieme nella vita di ogni uomo, dall’inizio alla fine e non si può pretendere di scioglierle. E invece, come si diceva, col bisturi del nostro raziocinio abbiamo spezzettato, e poi separato e contrapposto, per cui, ad esempio, «non si può essere felici se si soffre» come dice il personaggio del Bianco in Sunset Limited di Cormac McCarthy; per cui, ad esempio, la vita e la morte sono considerate una l’opposta dell’altra.

Ma non è così perché all’opposto della morte non c’è la vita ma la nascita. Entrambe, nascita e morte, stanno, insieme, dentro la vita. Da ciò deriva il fatto che il vivente è un morente, così come (va ricordato) il morente è un vivente. È questa la domanda che ci pone Archie: chi sono io? Un morto o un morente? Chi sono io non come idea, ma proprio io, chi sono per voi? Potete o non potete vedere soffrire? Non soffrire in astratto ma in concreto: possiamo vedere soffrire Archie Battersbee?

Dentro queste domande dobbiamo stare, dimorare. E forse altre potrebbero scaturire ulteriormente, perché la coscienza sta lì apposta, per fare domande, questo ci rende umani, del resto già Picasso ebbe a dire: «i computer sono inutili, danno solo risposte».

E allora stiamo qui, in compagnia delle domande, perché, come ha ripetuto il Papa venerdì scorso: «Una persona che soltanto vive di risposte è una persona che è abituata a chiudere, chiudere, chiudere. Una persona che vive di domande è una persona abituata ad aprire, aprire, aprire. E Dio ama le domande». (andrea monda)

di Andrea Monda