· Città del Vaticano ·

La storia di suor Ibtisam in un Iraq martoriato dalla guerra

Francesco ci ha restituiti
alla vita

 Francesco ci ha restituiti alla vita   QUO-172
29 luglio 2022

Ibtisam Habib Gorgis è una suora irachena, appartiene alla congregazione delle francescane Missionarie del Cuore Immacolato di Maria. La incontriamo a Gerusalemme, dove si trova per un breve periodo di esercizi spirituali. Ha un sorriso contagioso, una parlata torrentizia e un viso che trasmette serenità e pace interiore. A dispetto delle atrocità di cui la guerra nel suo Paese l’ha chiamata ad essere testimone.

«Sono nata e cresciuta a Qaraqosh, una città assira nel nord dell’Iraq, che si trova a soli 30 chilometri da Mosul, e vicino alle rovine dell’antica città di Ninive. Il dialetto che vi si parla è una derivazione dell’aramaico. Parliamo la lingua di Gesù», dice con orgoglio, ma parla anche un fluente e corretto italiano, che ha imparato negli anni del noviziato. «Qaraqosh — spiega — è una piccola enclave cristiana nel nord dell’Iraq, di tradizione tanto assira che caldea, ma abbiamo sempre vissuto in pace e rispetto reciproco con i nostri vicini musulmani».

Com’è che una ragazza irachena decide di farsi suora?

In verità io non ci avevo mai pensato, perché pur vivendo in un ambiente patriarcale e tradizionale, sono sempre stata molto indipendente. Sono molto gelosa della mia libertà. Anche ora — e ride — che vesto questo velo.

E quindi com’è successo?

Frequentavo il gruppo cattolico degli universitari, dove studiavo biologia. In quel tempo, debbo dire, non vivevamo male: dopo la prima guerra del Golfo, eravamo isolati dal mondo, non capivamo quello che succedeva fuori dei nostri confini, ma vivevamo in pace. Tāreq ‘Azīz, il ministro degli Esteri — che in realtà aveva un’influenza molto ampia — era un cristiano caldeo e proveniva da Tel Keppe, che è vicinissimo a Qaraqosh. C’era una cosa che mi piaceva molto di questa mia militanza tra i giovani cattolici: aiutare i poveri. Trovavo gusto nel fare il bene. Non era una gratificazione egocentrica, mi dava piuttosto una pace interiore, mi restituiva il senso più vero dell’umanità: vivere con gli altri e per gli altri. Ma non trovavo ancora un posto dove realizzarmi pienamente. Venne a trovarci un frate francescano. Ne rimasi profondamente impressionata; lessi la vita di san Francesco e una piccola luce si accese nel mio cuore. Poi vennero due suore italiane che mi invitarono a visitare il loro convento in Giordania. Ero ormai in quella che dalle nostre parti è l’età del matrimonio, ma… ma io volevo essere libera. Quando la mia famiglia intuì che il mio sguardo si volgeva invece altrove si irrigidirono. «Questa è mia figlia, non la vostra» diceva mio padre sull’uscio di casa alle suore impedendogli di entrare. Alla fine dopo tante insistenze si arrese e mi lasciò partire per la Giordania. Un viaggio, accompagnata da mio zio, che durò 18 ore a causa dell’embargo in cui si trovava il nostro Paese. L’ingresso non fu facile, non capivo molto la lingua, dovevo imparare l’italiano, le suore seguivano il rito siriaco e non quello latino perciò a messa, lodi e vespri non capivo niente, e soprattutto era un ordine di vita che non conoscevo. Il punto di non ritorno, può sembrare sciocco, fu il taglio dei capelli; un vero taglio con la vita precedente. Ma, malgrado tutte le difficoltà da superare, avvertivo una crescente pace interiore. I cambiamenti di vita creano in genere inquietudine, ansia; questo cambiamento, pur così radicale, invece mi suscitava tanta pace. Eravamo quattro ragazze a venire da Qaraqosh, e questo mi era di conforto; c’era qualcuno con cui potevo almeno parlare ed essere capita. Dopo nove mesi mi consentirono di tornare a casa e rivedere i miei, e poi mi mandarono in Italia per svolgere il noviziato.

Dopo sei tornata in Medio Oriente?

Sì. Prima mi mandarono in Terra Santa, a Betlemme e a Nazareth, e poi tre anni a Baghdad, impegnata sul fronte educativo. Fino a quel terribile 6 agosto del 2014. Mi trovavo nella mia città natale. Daesh era entrato nella regione di Ninive. Non c’era più acqua e luce nelle case. Poi sentimmo un’esplosione. Una casa, alla periferia, era stata centrata da un missile. Ci precipitammo lì, e trovammo solo macerie e cadaveri. Sepolti i morti cominciò la grande fuga. In cinquantamila, senza distinzioni religiose e politiche, lasciarono le case e la città. I racconti dell’orrore che ci venivano dalle zone già occupate da Daesh non lasciavano altre opzioni che fuggire. Al suo ingresso a Qaraqosh Daesh non avrebbe dovuto più trovare nessuno. Aiutammo quanta più gente possibile, e con ogni mezzo, a scappare. Da tutta la regione di Ninive in 120.000 si diressero verso il Kurdistan. Noi suore rimanemmo fino alla fine, un po’ per aiutare gli sfollati e un po’ perché non sapevamo dove andare. Dormimmo in strada per essere pronte alla fuga. Poi il vescovo ci ordinò di partire: fummo le ultime a lasciare Qaraqosh, noi partimmo alle due notte e alle cinque i primi avamposti di Daesh occupavano la città. Quando i miliziani entravano in una città, lasciavano tre opzioni: o vi fate musulmani, o pagate, o vi uccidiamo. Quasi ogni famiglia ha un morto da piangere. Un quarto delle case furono bruciate, tutte saccheggiate e le chiese distrutte. Abbiamo lavorato, con tutta la Chiesa cattolica, ad aiutare gli sfollati che hanno vissuto per mesi sotto le tende o in abitazioni di fortuna. Poi siamo state inviate di nuovo in Terra Santa, attraversando il confine giordano. Una notte durata più di due anni. Qaraqosh venne liberata il 19 ottobre del 2016, con la battaglia di Mosul. Dopo quella data alcuni degli abitanti hanno cominciato a tornare. Ma molti, soprattutto quelli che avevano trovato rifugio all’estero, non sono più tornati. Oggi la situazione è ancora penosa, la ricostruzione è lenta, non c’è lavoro, c’è tanta povertà.

E oggi cosa fai sorella Ibtisam?

Oggi sono di nuovo nel mio Paese. E gestisco insieme a due consorelle un asilo con oltre 500 bambini. La visita di Papa Francesco dello scorso anno è stato un passaggio fondamentale della nostra esperienza. Ci ha ridato un respiro, per la prima volta dopo anni abbiamo sentito che c’è qualcuno che veramente si prende cura di noi, qualcuno che ci vuole bene. Ci ha fatto sentire di essere un valore per la Chiesa. Siamo vivi e siamo nella fede. Ci ha dato orgoglio presso le altre religioni, presso i musulmani che erano scappati anche loro come noi dalle atrocità di Daesh. Solo quando abbiamo visto e toccato Papa Francesco in questa terra, qui accanto a noi, abbiamo realizzato che era finita. Era veramente finita, e ora possiamo voltare pagina. Non è stata una “visita” quella di Papa Francesco, è stata una restituzione alla vita.

di Roberto Cetera


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