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DONNE CHIESA MONDO

Saggi
Un libro di Adriana Valerio riapre il dibattito

La questione Eretiche

 La questione Eretiche  DCM-007
02 luglio 2022

«Il primo giugno 1310 venne bruciata una giovane filosofa, la beghina di Valenciennes Margherita Porete; nel 1524 la mistica Isabel de la Cruz fu processata e successivamente condannata all’ergastolo dall’Inquisizione di Toledo; a metà del Seicento furono deportate le colte suore gianseniste di Port Royal dall’arcivescovo di Parigi; nel 1912 fu considerato pericoloso e messo all’Indice dei libri proibiti l’opera della teologhessa inquieta Antonietta Giacomelli (Adveniat Regnum Tuum) che voleva sollecitare una riforma liturgica nella Chiesa. Sono queste alcune delle protagoniste di questo libro: donne audaci che hanno osato fronteggiare i tribunali ecclesiastici, che sono state giudicate non in linea con le direttive dell’ortodossia cattolica e per questo considerate “eretiche”».

Comincia così il libro Eretiche. Donne che riflettono, osano, resistono (ed. Mulino) di Adriana Valerio, teologa e storica. Dice subito, l’autrice, che «donne e eresie è una questione complessa». «Non può essere considerata una categoria definita – perché la demarcazione con l’ortodossia non è sempre precisa e dipende dal punto di osservazione di chi ritiene di possedere la verità –, ma, soprattutto, è un concetto relativo, in quanto vincolato al dinamismo della storia, ai soggetti che la interpretano, ai contesti teologici e politici e ai cambiamenti culturali e religiosi che l’attraversano».

Profetesse, mistiche, false sante, streghe, riformatrici, libere pensatrici animano il vasto popolo delle eretiche, ma il libro si focalizza su alcuni casi «leggibili all’interno di una proposta di cambiamento e di riforma nella Chiesa». Eccone alcuni, , in sintesi, così come li racconta Valerio.

Margherita Porete

A Parigi, il primo giugno 1310, viene bruciata una giovane donna, la beghina di Valenciennes Margherita Porete, insieme al suo libro Lo Specchio delle anime semplici, giudicato eretico in alcune sue parti. A lei, sottoposta a processo dall’inquisitore francese, il domenicano Guillaume Humbert, era stato concesso di pentirsi per sottrarsi alla morte, ma rifiutò di abiurare e, irremovibile nel suo silenzio, venne consegnata al braccio secolare. Il rogo doveva cancellare la memoria della donna e del suo scritto, ma, fortunatamente alcuni esemplari circolarono anonimi in Europa fino alla scoperta di un codice avvenuta a opera della studiosa Romana Guarnieri che nel 1946 riuscì a identificarlo ricostruendone la storia. Margherita non pretendeva l’eliminazione dell’istituzione, ma, piuttosto, proponeva una coesistenza di due livelli di appartenenza alla Chiesa, l’una segnata dal bisogno di una vita scandita da regole, devozioni e opere virtuose; l’altra caratterizzata dalla libertà di chi, unendosi a Dio nell’amore che tutto avvolge, riesce ad acquisire libertà.

Guglielma di Milano

Di Guglielma abbiamo poche notizie dal momento che la sua storia è ricostruibile attraverso i processi inquisitoriali intentati nel 1300, ben vent’anni dopo la sua morte. Sappiamo che a Milano questa donna di ceto sociale elevato aveva creato legami con l’abbazia cistercense di santa Maria di Chiaravalle che le aveva concesso di vivere in una casa nei pressi della parrocchia di san Pietro all’Orto. Qui aveva raccolto ben presto intorno a sé una comunità di credenti che la veneravano come maestra e santa. La morte di Guglielma, avvenuta il 24 agosto tra il 1281 e il 1282, ha segnato l’inizio di un processo di santificazione: la tomba traslata nell’abbazia diventò luogo di preghiere e di incontri; i monaci accoglievano i pellegrini, che giungevano numerosi, con prediche e feste celebrative promuovendo in tal modo il suo culto. I devoti, dunque, non erano considerati eretici, ma fedeli figli dello Spirito. Guglielma, però, da santa diventò nel giro di pochi anni eretica e contro di lei e i suoi discepoli venne aperto un processo nel 1300. Santa in vita ed eretica post mortem, venerata e perseguitata, il percorso umano di Guglielma sfociava in una teologia alternativa: l’incarnazione dello Spirito Santo che il suo corpo di donna rendeva visibile, si connette non solo al filone mistico-contemplativo che rimanda alla dicibilità di Dio al femminile, ma apre anche all’immagine utopica di una Chiesa istituzione che pone ai suoi vertici le donne.

Giovanna d’Arco

Un percorso inverso a quello di Giovanna d’Arco, morta sul rogo nel 1431, all’età di 19 anni: prima eretica e poi portata sugli altari, non perché divinizzava la femminilità, ma perché, al contrario, indossava abiti maschili.

L’abito, infatti, indicava una condizione sociale e sostanziale e portare vesti maschili da parte di una donna significava per la Chiesa contrastare l’ordine naturale, volendo assumere compiti non consentiti. Giovanna non vi rinunciò perché per lei l’abbigliamento era strettamente legato alla missione che voleva compiere al di là della sua connotazione sessuale.

Le alumbradas

Particolare attenzione l’Inquisizione spagnola riservò al movimento degli «illuminati» (alumbrados) in particolare alle alumbradas, quelle visionarie, cioè, che, immerse nell’amore di Dio, rivivevano e predicavano passaggi del testo sacro rielaborandoli alla luce della propria esperienza spirituale appellandosi alle parole di Paolo: «La lettera uccide, lo spirito invece dà vita». A guidare un gruppo di alumbradas agli inizi del Cinquecento furono due figure carismatiche, legate da amicizia ed entrambe di origine conversa, appartenenti, cioè, a una famiglia ebrea convertita: Isabel de la Cruz, terziaria francescana e predicatrice, e María de Cazalla, una laica, madre di sei figli e moglie di un borghese benestante. Isabel venne arrestata dall’Inquisizione di Toledo nel 1524 e María de Cazalla nel 1532, dopo che aveva sostituito l’amica alla guida del gruppo. Degli alumbrados faceva parte l’umanista Juan de Valdés che dalla Spagna approdò esule in Italia in seguito alla condanna della sua opera Dialogo della dottrina cristiana (1529).

A Napoli, dal 1534 fino alla morte, guidò un cenacolo di donne e uomini alla ricerca di una dimensione interiore della fede a discapito delle forme esteriori dei riti. Intensa fu la partecipazione di aristocratiche al valdesianesimo: Costanza d’Avalos, Maria d’Aragona, Isabella Bresegna e soprattutto Giulia Gonzaga considerata sua erede spirituale.

Giulia Gonzaga

Dal rapporto spirituale tra Valdés e la contessa Gonzaga nacque l’Alfabetocristiano (1545). Dopo la morte di Valdés, avvenuta nel 1541, la contessa s’impegnò a diffondere i suoi manoscritti e, nonostante l’appartenenza nobiliare, non le fu risparmiata un’indagine da parte dell’Inquisizione anche per i suoi rapporti con un altro esponente dell’evangelismo italiano: l’umanista Pietro Carnesecchi. Morì, però, solo «in odore di eresia» nel 1566, prima che il processo si potesse svolgere: la sua abitazione fu perquisita, il suo carteggio sequestrato e Carnesecchi imprigionato, torturato e messo a morte l’anno successivo.

Vittoria Colonna

Anche la marchesa di Pescara, la poetessa Vittoria Colonna, fu sotto osservazione perché all’interno di una fitta trama di relazioni con riformatori impegnati a riflettere su delicate questioni di fede: oltre alla presenza nel circolo di Giulia Gonzaga, fu ospite della vivace corte filo-protestante di Renata di Francia a Ferrara ed ebbe intensi contatti con la comunità di Viterbo che si riuniva intorno al cardinale inglese Reginald Pole per discutere di Bibbia e di nodi teologici sollevati dalle istanze luterane. Era in corrispondenza con la scrittrice Margherita d’Angoulême regina di Navarra, figura centrale della riforma religiosa francese a contatto con Calvino e Melantone, e conosceva bene la colta duchessa Caterina Cibo, privilegiata interlocutrice, intorno ai temi della giustificazione, del predicatore cappuccino Bernardino Ochino, poi passato alla Riforma protestante. Fu, infine, musa ispiratrice di Michelangelo, anche lui inserito nel gruppo di questi spirituali, che per lei disegnò una Pietà, un Cristo in Croce e un Cristo e la Samaritana al pozzo, in linea con l’esperienza di una religiosità intima e intensa, segnata più da dubbi che da certezze.

Juana Inés de la Cruz

Accusata di superbia fu pure la suora messicana Juana Inés de la Cruz che, oltre che di poesia, si interessava di matematica, astronomia, musica, sacra Scrittura e teologia. Sfortunatamente entrò in disputa sull’interpretazione di un brano biblico con uno stimato predicatore portoghese, il gesuita António Vieira. Lei, nel difendersi dall’accusa di dedicarsi allo studio dei sacri testi, attività non consentita a una monaca, sviluppò la propria riflessione intrecciando ricordi autobiografici (la sua passione per gli studi) a richiami biblici e profani (i modelli femminili che si sono distinti per sapienza e scienza) e a riflessioni storico-dottrinali (il ruolo svolto dalle donne nella storia della Chiesa e la necessità dello studio per le donne, in quanto utile e vantaggioso). Attraverso le testimonianze storiche tratte dalla vita di donne dotte, Juana difese il loro diritto allo studio della Bibbia che doveva essere autorizzato e concesso a tutti coloro che avevano talento e virtù, donne e uomini che fossero. Per la religiosa messicana l’interpretazione biblica muoveva da una precisa contestualizzazione del testo esaminato. Per questo, secondo lei, il versetto di Paolo «Le donne tacciano in assemblea» era diretta contro l’usanza, praticata nella Chiesa primitiva e riferita da Eusebio, secondo cui le donne insegnavano la dottrina le une alle altre nelle chiese. Ma siccome il loro parlottio disturbava gli apostoli mentre predicavano, si ordinò di tacere. Nel 1692 suor Juana fu costretta ad abiurare davanti al tribunale dell’Inquisizione. Le pressioni del confessore e della chiesa locale la spinsero a regalare la sua copiosa biblioteca (più di quattromila volumi), i suoi strumenti musicali e matematici all’arcivescovo Aguiar y Seijas perché li vendesse, e a dedicarsi a una rigorosa vita ascetica che la porterà in breve alla morte.

Jeanne Guyon

Nell’inquieta corrente quietista rientrava l’ardito percorso di fede della mistica francese Madame Jeanne Guyon (1648-1717) che, attraverso il suo fragile corpo parlante, intraprese un «cammino dell’intelletto e del cuore», come alternativa teologica al razionalismo. Sentiva di avere un ruolo apostolico e l’esperienza mistica la persuase che le donne, per la loro condizione di umiltà e disponibilità, erano più idonee a narrare le verità divine. Le esperienze concrete della vita femminile consentivano di avvicinarsi alla verità non attraverso sistemi concettuali, ma grazie a un itinerario di fede sapienziale, quella che Guyon chiamava «fede saporita». In lei, madre spirituale dell’abate François Fénelon, emerge l’esaltazione del sentimento contro il razionalismo cartesiano, l’abbandono passivo all’amore di Dio che rende impeccabili e indifferenti alle opere esteriori e alle pratiche devozionali: «Dio vuole essere amato, non conosciuto» (Les torrents spirituels, 1682). Nel 1695 Madame Guyon venne arrestata, processata ed esiliata; nel 1699 Fénelon fu condannato.

Le streghe di Salem

Sottolinea Adriana Valerio che la caccia alle streghe non può essere generalizzata attribuendone la colpa in maniera prevalente a una regione geografica o a una confessione religiosa, dal momento che non solo la cattolica, ma anche le Chiese protestanti parteciparono «a questo delirio collettivo». Cause locali accentuarono il fenomeno mescolandosi a motivazioni politiche e religiose. Per esempio valdesi e catari, che si erano rifugiati nelle Alpi occidentali, diventarono sinonimi di persone dedite alla stregoneria e, conseguentemente, nel Delfinato si intensificarono i processi e le persecuzioni. Alla fine del Seicento dall’Europa il fenomeno approdò nelle colonie della Nuova Inghilterra dove furono processate e messe sotto tortura 144 persone a Salem nel Massachusetts: un caso di isteria collettiva, come fu successivamente ritenuto.