
«La Chiesa è in costruzione, non è una realtà finita; stiamo costruendo la Chiesa, ma non siamo noi i soggetti operativi; noi siamo le pietre! Il progetto e la realizzazione non sono della pietra, ma di Dio». È un’immagine fortemente evocativa quella scelta dal cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, legato pontificio a Cosenza sabato scorso, 25 giugno, per la celebrazione degli ottocento anni della dedicazione della cattedrale. I cristiani, ha puntualizzato in proposito il porporato, sono un “popolo sacerdotale” ed «essere tutti consapevoli di questa responsabilità di missione e di servizio è lo scopo del cammino sinodale che Papa Francesco ha affidato a tutta la Chiesa».
Del resto, ha rimarcato il celebrante all’omelia della messa, si tratta di incarnare appieno quanto è scritto nel Catechismo della Chiesa cattolica: «Gesù Cristo è colui che il Padre ha unto con lo Spirito Santo e ha costituito Sacerdote, Profeta e Re. L’intero popolo di Dio partecipa a queste tre funzioni di Cristo e porta la responsabilità di missione e di servizio che ne derivano» (n. 783).
Per la sua riflessione il porporato ha preso spunto dal fatto che in tutte le diocesi del mondo la cattedrale «è punto di riferimento della fede e dell’impegno cristiano ed è il centro ecclesiale e spirituale della diocesi». Compito, questo, che il duomo cosentino assolve dal 30 gennaio 1222, quando fu inaugurato alla presenza dell’imperatore Federico ii e dedicato a santa Maria Assunta, rappresentando fin da allora «per l’intero territorio della Calabria Citra un riferimento fondamentale, a livello religioso e culturale».
Ed è sempre nella cattedrale che Dio abita e ha la sua casa, ha aggiunto con riferimento al sinonimo “duomo”, termine di derivazione latina proveniente da domus, “casa”. La casa di Dio, appunto. Fermo restando, ha ammonito il legato pontificio, che «la chiesa cristiana non è solo la casa di Dio, perché in tal caso basterebbe un “santuario” che contenga la cella della divinità, ma è il luogo dove il popolo di Dio si riunisce per compiere l’opera pubblica più importante che si possa pensare: quella del culto e del servizio divino». Pertanto, «la gente entra come protagonista a pieno titolo di quanto si celebra; il culto appartiene alla comunità nel suo complesso». È proprio qui che il popolo di Dio, radunato per pregare, diventa l’immagine della comunità, perché «è la Chiesa, con la “ c ” maiuscola, la comunità delle persone», una Chiesa fatta dalle persone che è più importante del mero edificio architettonico, ed è mistero e «cuore del progetto di Dio».
Un progetto che guida saldamente quel cammino sinodale già felicemente avviato, ha chiarito Parolin, ricordando che la pietra su cui tutto è costruito è prima Cristo e poi Pietro, punto «di partenza e di riferimento e, insieme a lui, tanti altri, una infinità di persone, le pietre viventi con cui il Signore costruirà la sua Chiesa». A quest’opera divina, segno di vicinanza e di amore dell’Onnipotente all’umanità, «noi — ha evidenziato Parolin — diamo la nostra disponibilità, ci lasciamo edificare, proprio come un bambino che ha bisogno di essere edificato, che ha bisogno di esempi, di parole e di aiuti per costruire la sua mentalità e il suo modo di vedere».
E così, forgiati con la saldezza della roccia, diventiamo pilastri portanti dell’edificio spirituale che il Signore ha predisposto per noi. L’architetto e il progettista, ha osservato Parolin, è lo Spirito Santo, «che è geniale nelle sue idee ed è abile nell’edificazione. Come ebbe a dire Papa Francesco in una meditazione mattutina alcuni anni fa: “È lo Spirito Santo che fa la Chiesa e cementa la sua unità avendo per base la pietra angolare che è Gesù. Per orientarci a collaborare a questa costruzione, noi abbiamo tra le mani una ‘piantina’ che si chiama speranza”».
Seguendo il solco tracciato da quest’ultima, pertanto, sta ai fedeli «ritrovare il gusto e la gioia» dell’appartenenza sia alla Chiesa cattolica nella sua totalità sia a quella locale nella sua particolarità di comunità diocesana, ha concluso il segretario di Stato. Senza dimenticare mai che essa è «una madre che ci insegna a parlare il linguaggio della fede».