Coloranti, acidi per la concia, scarti di metalli pesanti e altre sostanze chimiche pericolose ogni giorno si riversano nei fiumi del Bangladesh direttamente delle fabbriche tessili del Paese dell’Asia meridionale. Succede anche nelle acque del Buriganga, alla periferia sud-ovest della capitale Dacca, mentre i barcaioli aspettano di far salire a bordo i passeggeri nella zona di Karanigonj. Il colore dell’acqua è rossastro, come accade anche per altri fiumi del Bangladesh, secondo polo al mondo per la produzione di abbigliamento dopo la Cina. L’80 per cento delle esportazioni commerciali è legato infatti all’industria vestiaria. Il Paese, con oltre 160 milioni di abitanti, ha annunciato per il 2024 l’uscita dalla lista stilata dall’Onu degli Stati «meno sviluppati», per entrare in quella delle nazioni «in via di sviluppo». Un obiettivo di crescita che per gli ambientalisti però ha un costo incalcolabile a livello di danni all’ecosistema e di inquinamento, in un quadro generale di povertà, il cui tasso è passato, con la pandemia, dal 21 al 41 per cento. Ad aggravare la situazione, le recenti alluvioni che hanno colpito le zone nordorientali del Bangladesh, mettendo a rischio 4 milioni di persone. (giada aquilino)
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25 giugno 2022
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