· Città del Vaticano ·

La scomparsa di Ciriaco De Mita

Un timido visionario

 Un timido  visionario  QUO-120
27 maggio 2022

Anche se non sembrava, Ciriaco era un uomo timido. Di quelli che pur avendo un cuore grande e sensibile, sono come bloccati nell’espressione e impacciati nei movimenti, e finiscono per essere scostanti o ruvidi nei modi; un “selvatico” lo definì Adriano Paglietti, un altro di quel laboratorio di idee (più che corrente di partito) che fu La Base della Democrazia Cristiana. Adriano mi stava confortando perchè mi stavo lamentando di Ciriaco che mi aveva promesso di scrivere un ricordo su mio padre (anche lui della Base insieme al mio secondo padre, Riccardo Misasi, che di Ciriaco fu più che un amico), e non stava rispettando i tempi di consegna, rinviando e non facendosi trovare. Ed io avevo un libro da stampare. Finì che quel ricordo non lo scrisse mai, però venne di persona a farlo “dal vivo” alla commemorazione e fu affascinante. Raccontò di quando, negli anni ’50, in un piccolo appartamento del quartiere Prati, discutevano del momento storico e dell’evoluzione del partito e di come immaginavano la DC già in uno scenario di centro-sinistra; Ciriaco parlava e mio padre taceva, anzi, “mugugnava”. Però da quei gemiti, che Ciriaco provava a rifare, egli comprendeva il pensiero di mio padre e in qualche modo i due dialogavano. Questo racconto me lo fece nel 1995, a venti anni dalla morte di papà, e me lo rifece ogni volta che mi incontrò per tutti questi anni, fino a oggi. Si ripeteva ma con gusto, suo e mio. E così mi rifece la scenetta di quel singolare dialogo anche l’ultima volta che ci siamo visti, il 13 gennaio scorso, nell’anticamera della Biblioteca del Palazzo Apostolico in attesa che lui fosse ricevuto da Papa Francesco. Era molto interessato al Papa. Ne avevamo parlato a lungo quando lo avevo intervistato, due anni prima, in occasione del suo 92esimo compleanno. Mi aveva sottolineato, tra le altre cose, la consonanza fra il suo “pensiero incompiuto” e il destino del pensiero politico: perchè la storia e quindi la politica, come “fatti umani”, posseggono un «dinamismo che non si risolve, per cui non si raggiunge mai una perfezione definitiva. Vedo la storia come cammino, come processo e la politica come accompagnamento dei processi storici».

Nel saggio La storia d’Italia non è finita scrive infatti: «Non ho mai considerato la politica un mestiere o una professione fra le altre, bensì un’attività molto importante, contraddistinta da una peculiare fisionomia. Senza esagerare, tendo se non ad assimilarla, almeno a paragonarla, per qualche verso, alla creatività dell’artista, poiché, per fare veramente politica, una qualche capacità ideativo-inventiva giova». Per lui quindi la politica era innanzitutto visione, revisione del passato e immaginazione per il futuro, ma tutto questo nella condivisione, in una dimensione squisitamente popolare. «Il legame tra questi tre termini [memoria, comunità, politica] è profondo — aggiunge — innanzitutto nel senso che la politica può essere narrata solo come storia complessiva, sottraendo la memoria dalla tentazione della solitudine, dal racconto solitario» . E qui rientra un termine che difficilmente sembrerebbe applicabile allo stile di Ciriaco (così come è stato etichettato, il grande maestro del “ragionamento”) e invece è centrale per comprenderne il mistero: il sentimento. Quando la politica è narrazione di una storia complessiva: «L’idea si trasforma in forza socialmente sentita e operante, invece di risolversi in elucubrazione. Infatti, se si eccettuano i momenti in cui esprime un ripiegamento su se stessi o un intristirsi dell’anima, il sentimento è una forza accomunante, generatrice di movimento e di cambiamento molto più della stessa ribellione».

La scintilla che provocò quell’incontro sul limitare della sua vita fu, per Ciriaco, vedere il Papa solo sotto la pioggia la sera del 27 marzo 2020. Me ne parlò in termini commossi e commoventi. Quella preghiera in quella piazza vuota ma piena di tutto il mondo, quella supplica a Dio Padre a nome dell’intera umanità lo aveva colpito profondamente. E aveva impresso in lui, in un novantenne cresciuto immerso nello spirito e nella cultura cattolica, un nuovo processo di conversione. Aveva in qualche modo riscoperto la fede e la preghiera. Andò a dirglielo di persona. Mi chiese di accompagnarlo. Fu un bell’incontro. Dolce. Si parlò anche di politica, della democrazia, nel senso del comunità, del popolo, e di cosa fare per una società che sembra sfilacciata, disorientata, composta di tanti solitudini, di come ridare al tempo una quella spinta propulsiva, che gli impedisce di “sedersi” (tantomeno “sugli allori”) e sempre spostare più in là l’orizzonte, con curiosità su ciò che si può già oggi intravedere, immaginare.

Quello del 13 gennaio fu insomma la “cronaca di un incontro annunciato”. E lo sguardo, aperto e accogliente, che si sono scambiati dall’inizio alla fine di quella conversazione vale più delle tante, singole parole; fu anche quello un “mugugnare”.

Ma ciò che rimarrà nel mio cuore, è soprattutto quel che Ciriaco mi disse, brevissimamente, nei minuti di anticamera.

Le parole di un uomo in 94 anni ricchi di vita, intensi, ora finalmente in pace con il Signore. Proprio grazie a quel processo di conversione in qualche modo innescato dal Papa in preghiera nella piazza deserta, si sentiva ora pronto, sereno, libero e si affidava. E mi raccontò che a Nusco, il suo paese, quando moriva qualcuno tutto il paese si recava al funerale, anche quelli che avevano avuto liti o incomprensioni con il defunto e tutto si scioglieva, la misericordia riprendeva il sopravvento. E aggiunse: «Anch’io ho litigato con diverse persone». Ma era lieve il suo parlare, non risentito o appesantito. Parlava più con gli occhi che con le labbra, quegli occhi acuti, pronti a illuminarsi nel riso, o a sgranarsi per la meraviglia, quando la timidezza provava a bloccarlo, ma quella era ormai una vecchia storia.

di Andrea Monda