Missione, lotta alla povertà
L’esperienza dei nostri missionari e missionarie che operano nel Sud del mondo, particolarmente in Africa, ha generato la convinzione, peraltro legittima, che la questione della «Chiesa dei poveri e per i poveri» non possa prescindere dal rapporto intrinseco tra fede e vita, tra Vangelo e liberazione, tra annuncio e promozione della condizione umana. Come rileva padre Francesco Pierli, ex superiore generale dei comboniani, per lunghi anni missionario in Kenya e Uganda, «alla luce delle sfide sociali, politiche ed economiche del continente africano, la Chiesa è chiamata ad essere un credibile agente di cambiamento offrendo una migliore comprensione del rapporto che esiste tra il mistero di Dio, il male e la responsabilità umana. Il tema della povertà è emblematico a questo riguardo».
Se da una parte, dunque – per dirla con le parole di Giovanni Paolo ii – «il principio della sollecitudine» verso gli uomini è «in Gesù Cristo stesso, come testimoniano i Vangeli» (Redemptor hominis, n. 15), «il servizio della carità – come dice Papa Francesco citando Benedetto xvi – è una dimensione costitutiva della missione della Chiesa» (Evangelii gaudium, n. 179). Una missione che non solo è decentrata in periferia, ma che esige scelte davvero coraggiose, all’insegna della collegialità: «Non è opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso, avverto la necessità di procedere in una salutare decentralizzazione» (ibid. n. 16). Cosa significa tutto questo? Che la Chiesa, se vuole essere davvero cattolica, dunque universale, deve avere la capacità di coniugare l’unità nella diversità, tenendo conto del fatto, per così dire, che il mondo è più grande di piazza San Pietro.
Le miserie che contaminano le periferie del mondo, come ad esempio alcune località dell’Africa subsahariana, si combattono, anche e soprattutto, attraverso un sano discernimento da parte di quelle comunità che forse più di altre — è il caso di riconoscerlo — sono per natura, come dice Papa Francesco, degli «ospedali da campo». Pensiamo, ad esempio, a certe realtà ecclesiali come quelle nella diocesi di Butembo-Beni (Nord Kivu, Repubblica Democratica del Congo) dove gli operatori pastorali, a fianco della popolazione autoctona si qualificano come veri e propri “caschi blu di Dio”. Lo stesso ragionamento riguarda le comunità del Burundi, del Sud Sudan o della Nigeria settentrionale. Questo discernimento, comunque, è finalizzato non tanto al tradizionale contrasto alle povertà endemiche delle periferie geografiche ed esistenziali, ma soprattutto all’inclusione sociale dei poveri perché «ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati a essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società; questo suppone che siamo docili e attenti ad ascoltare il grido del povero e soccorrerlo» (ibid. n. 187).
La richiesta di Gesù ai suoi discepoli: «Voi stessi date loro da mangiare» (Mc 6,37), per Papa Bergoglio «implica sia la collaborazione per risolvere le cause strutturali della povertà e per promuovere lo sviluppo integrale dei poveri, sia i gesti più semplici e quotidiani di solidarietà di fronte alle miserie molto concrete che incontriamo» (ibid. n. 188). Ma non è tutto qui. Il Papa offre anche un’interpretazione della solidarietà nei confronti dei poveri che va ben al di là dell’approccio paternalistico, molto radicato nelle Chiese di antica tradizione, tipico dei cosiddetti benefattori di certa “carità pelosa”. Sì, quella di chi mette mano al portafoglio con l’intenzione premeditata di lavarsi la coscienza. A questo proposito il Papa riconosce che «la parola “solidarietà” si è un po’ logorata e a volte la si interpreta male, ma indica molto di più di qualche atto sporadico di generosità. Richiede di creare una nuova mentalità che pensi in termini di comunità, di priorità della vita di tutti rispetto all’appropriazione dei beni da parte di alcuni» (ibid. n. 188), precisando poi che «la solidarietà è una reazione spontanea di chi riconosce la funzione sociale della proprietà e la destinazione universale dei beni come realtà anteriori alla proprietà privata. Il possesso privato dei beni si giustifica per custodirli e accrescerli in modo che servano meglio al bene comune, per cui la solidarietà si deve vivere come la decisione di restituire al povero quello che gli corrisponde. Queste convinzioni e pratiche di solidarietà, quando si fanno carne, aprono la strada ad altre trasformazioni strutturali e le rendono possibili. Un cambiamento nelle strutture che non generi nuove convinzioni e atteggiamenti farà sì che quelle stesse strutture presto o tardi diventino corrotte, pesanti e inefficaci»(ibid. n. 189).
Ma la sfida, evangelicamente parlando, secondo il Pontefice, ha un’ampiezza olistica e impone una «nuova mentalità politica ed economica» (ibid. n. 205), contraria a una «mentalità individualista, indifferente ed egoista» (ibid. n. 208). Sono dunque molteplici le sollecitazioni che Papa Bergoglio ci offre per interpretare la solidarietà secondo lo spirito evangelico della condivisione. Un concetto di «teologia pratica», questo, per cui chi è solidale, come nella parabola del Buon Samaritano (Lc 10,25-37), per compassione, cioè empatia dell’anima, si fa prossimo, dunque è povero come chi intende servire.
Qui s’impone una sfida politica, ma soprattutto culturale, che affermi la globalizzazione dei diritti nei fatti, non nelle parole. Serve poi una strategia comunitaria, che coinvolga tutti, ma davvero tutti. Quali sono, in fondo, le vere ragioni della mobilità umana dalla sponda africana, rispetto alla quale, l’Europa nel suo complesso, ostenta una sorta di algido cinismo? Quanto pesa nel nostro chiacchiericcio la miseria di quei popoli, quasi mai mediatizzati, ai quali abbiamo imposto oneri a non finire affinché l’azione predatoria nei confronti delle loro risorse passasse indisturbata? Poco importa che l’oggetto del contenzioso siano minerali pregiati o fonti energetiche del sottosuolo africano: la verità scomoda, che alcuni vorrebbero rimanesse nel cassetto, è che il nostro mondo civilizzato ha ricevuto dalle periferie del villaggio globale — quelle africane, ad esempio — molto più di quanto non abbia restituito.
Lungi da ogni retorica, molti dei nostri missionari e missionarie in Africa fanno molta fatica a comprendere la distinzione tra «rifugiati» e «migranti economici». Ammesso pure che vi fossero solo due categorie, come affermava nell’ormai lontano 1973 un certo Egon Kunz, studioso di mobilità umana, che elaborò la suddetta distinzione, meglio nota come «push/pull theory» — coloro che partono per necessità (i pushed) e chi lo fa invece per scelta (i pulled) — il paradosso è evidente. Se il migrante scappa dalla guerra o è perseguitato da un regime totalitario può essere accolto (qualificandosi appunto come rifugiato), se invece fugge da inedia e pandemie, in quanto nel suo Paese non esistono le condizioni di sussistenza, non può partire e deve accettare inesorabilmente il suo infausto destino (The Refugee in Flight: Kinetic Models and Forms of Displacement, in «International Migration Review», 7) . È ormai assodato che, a parte i tradizionali scenari di guerra (particolarmente in Medio Oriente, Africa e ora in Ucraina), non c’è mai una sola ragione che porta ad emigrare, ma un complesso di fattori: persecuzioni politiche, religiose, carestie, esclusione sociale, violazioni dei diritti umani, reti sociali che spingono verso il benessere… Non bisogna poi dimenticare che l’asilo è un privilegio concesso dagli Stati, non una condizione inerente all’individuo. Quindi alla prova dei fatti sono gli Stati che decidono se darlo o no in funzione di una serie di motivazioni che, a ben vedere, sono estremamente soggettive da parte dei rispettivi paesi di accoglienza.
E dire che molti popoli del sud del mondo come quelli africani sono penalizzati proprio dalla globalizzazione dei mercati che non è stata certo inventata dai migranti. Urge, pertanto, promuovere una cultura del destino comune che rappresenta l’unico deterrente contro quella che Papa Francesco definisce «la globalizzazione dell’indifferenza». Il saggista camerunese Yvan Sagnet ha giustamente affermato che «quando i poveri si convincono che i propri problemi dipendono da chi sta peggio di loro, siamo di fronte al capolavoro delle classi dominanti».
di Giulio Albanese