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99 miliardi di motivi

 99 miliardi di motivi  QUO-099
02 maggio 2022

Partiamo dall’Africa, visto che da lì siamo partiti. Noi esseri umani, così dicono gli studiosi, pare siamo nati, come ceppo originario, nel Continente cosiddetto Nero. Dal centro della grande Madre Africa arriva la cultura Ubuntu, ormai nota pure qui in Occidente, anche grazie a esempi luminosi come quello dell’arcivescovo Desmond Tutu.

Ubuntu è una vera e propria etica, propria dell’Africa sub-sahariana, che ha al centro il tema delle relazioni reciproche tra le persone. La parola proviene dalla lingua bantu e significa “umanità verso gli altri” o “benevolenza verso il prossimo”. È quindi una regola di vita, basata sulla compassione, la lealtà e il rispetto dell’altro. La frase più famosa di questa cultura può essere tradotta con “Io sono perché noi siamo”, cioè “Io sono ciò che sono in virtù di ciò che tutti siamo”. L’affermazione del proprio io quindi non prescinde ma scaturisce dal “noi”, e così anche i diritti individuali esistono ma insieme ai doveri collettivi, perché l’Ubuntu esorta a sostenersi e aiutarsi reciprocamente, come spinti da un anelito ideale e un desiderio di pace.

Alla base di questa cultura c’è la credenza in un legame universale di scambio che unisce l’intera umanità, per cui quando qualcuno fa male a un altro, lo sta facendo a tutto il mondo, anche a se stesso. Simile in questo allo spirito della celebre affermazione del Talmud per cui se uno salva una vita salva il mondo intero. La responsabilità si dirige non solo in senso orizzontale, verso il prossimo, ma anche in verticale, verso le generazioni passate e quelle future. Ecco perchè, come sostiene il professore Dirk Louw dell’università di Stellenbosch in Sudafrica, l’Ubunto si connota evidentemente di una dimensione religiosa: il comportamento di ogni singolo deve infatti rivolgersi al resto dell’umanità in modo conforme al rispetto degli antenati e in loro venerazione, e coloro i quali vivranno seguendo questo principio di responsabilità durante la loro vita, potranno raggiungere, nella morte, un’unità con quelli che sono ancora vivi.

Nel film di Steven Spielberg Amistad, uscito 25 anni fa, si vede un capo tribù africano che entra in un aula di tribunale, nella Washington di metà Ottocento, e non ha paura, eppure è lì, da solo in un paese ostile, a difendersi, senza conoscere la lingua, dalla condanna a morte quasi sicura, perché, dice: «Io non sono solo, con me ci sono i miei antenati: mi rivolgerò al passato, indietro fino all’origine dei tempi e li pregherò di venire ad aiutarmi in giudizio, lì tirerò a me e li farò entrare dentro di me, e loro devono venire, perché in questo momento io sono l’unica ragione per cui essi sono esistiti».

Tutto questo fa pensare. Dovrebbe, almeno.

Gira in questi giorni, nel vario e vasto mondo della Rete, la seguente domanda, con tanto di risposta: «Sapete quanti uomini sono vissuti in tutta la storia dell’umanità? In totale 107 miliardi nell’arco di 200 mila anni. Nell’8000 avanti Cristo eravamo appena 5 milioni. Oggi siamo 8 miliardi di persone vive. E 99 miliardi di morti». Non si è in grado, ora e qui, di verificare se tali numeri corrispondano alla verità, adesso semmai è il tempo, oggi, non domani, di porsi un’altra domanda che chiede risposta: «Sentiamo il sostegno ed insieme il peso della responsabilità di questi 99 miliardi di persone che ci hanno preceduto?». A loro dobbiamo rendere conto. A loro e a chi verrà dopo di noi. A questi, i nostri figli, dovremmo consegnare la fiaccola che 200 mila anni fa è stata accesa dai primi e poi mantenuta in vita da 99 miliardi di uomini come noi, i nostri progenitori. Ciascun uomo è perché noi siamo. Ognuno di noi fa parte di questa “staffetta”, che possiamo chiamare “tradizione”, che attraversa la storia e dall’alba dei tempi ci ha portato qui, a comunicare con i telefonini, a mandare astronavi nello spazio e creare ordigni nucleari; ci ha dato la musica di Bach e le rime di Dante, le tele di Rembrandt e le formule di Einstein, ha creato gli ospedali e i lebbrosari e pianificato genocidi... E infine ci ha condotti qui, alle porte di Kiev, e dello Yemen, e della Siria, e la lista sarebbe lunga comprendendo anche tutti quei Paesi dilaniati dalla guerra che si trovano all’interno della grande Madre Africa, che, come figli, dovremmo ascoltare quando parla e insegna.

Un altro proverbio africano, spesso citato da Papa Francesco, dice che per educare un bambino ci vuole un villaggio. Ecco il villaggio ha parlato e sta educando, sono 200 mila anni che lo fa, ma non tutti ascoltano la lezione, e stanno lì, sulla soglia drammatica, che da cattolici chiamiamo libero arbitrio, perché si può prendere la vita, propria o degli altri, o donarla, arrivando anche all’amore verso il nemico e al perdono, come è stato predicato 2000 anni fa in Israele. Ma quel Predicatore è stato accolto ma anche tradito, rinnegato, crocifisso. Eppure sentiamo che proprio nella paradossalità del suo messaggio e del suo dono c’è la forza per uscire dall’impasse di quel bivio, per indirizzare verso il bene la nostra libertà.

Perché è così, si sta, ogni giorno, come sempre, sulla soglia, al bivio: una strada porta alla consegna della fiaccola per trasmettere vita, cultura, bellezza, umanità, un’altra allo spegnimento, oggi forse definitivo, di quel fuoco così fragile e tenace, tenuto in vita grazie allo sforzo di 99 miliardi di persone. 99 miliardi di motivi per chiedere e lottare per la pace. (andrea monda)

di Andrea Monda