Non si può non avere paura quando si attraversa

«Questo viaggio era necessario, è stato una lente di ingrandimento sulla guerra. Viverla attraverso i media è nettamente diverso dal toccarla con mano nella sofferenza di queste persone. Sì, c’è l’indignazione davanti alla tv, ma ad ascoltare le storie dei profughi, si sente davvero un dolore, qui sulla pancia». Il cardinale Michael Czerny, in attesa di imbarcarsi sul volo Ryanair che lo riporta a Roma, ripercorre le 72 ore trascorse in Ungheria e Ucraina, in mezzo alla gente in fuga da una guerra folle.
«Il Santo Padre ha detto di portarvi la sua benedizione, la sua angoscia, la sua speranza», è stata la frase che il prefetto ad interim del Dicastero per lo Sviluppo umano integrale, inviato dal Papa in queste terre ferite, ha ripetuto ai tanti profughi incontrati nel corso delle visite in stazioni, centri accoglienza, parrocchie, rifugi. O alla frontiera di Barabaś, confine tra Ungheria e Ucraina, e nella tappa in territorio ucraino, a Beregove, villaggio della Transacarpazia epicentro del flusso di profughi ucraini, assistiti dai rappresentanti di diverse confessioni.
Una carità umile, discreta, quella espressa dal cardinale in questi luoghi, attraverso quello che ha definito «il sacramento della presenza»: l’esserci, il farsi vicino, senza gesti eclatanti, talvolta senza neppure proferire parola, ma solo ascoltando.
«È molto toccante», commentava dopo ogni incontro il cardinale, anche lui profugo con la famiglia da un ex Paese comunista, la Repubblica Ceca. «Tutta la mia vita è stata toccata da questo», confidava ai sacerdoti che, in macchina, nel pomeriggio del 9 marzo lo accompagnavano «dall’altra parte», oltre il confine ungherese: «Non si può non avere paura quando si attraversa una frontiera».
Si è detto soddisfatto il porporato a fine missione, ma solo per essere riuscito a portare la vicinanza del Papa a uomini e donne incontrate nel suo pellegrinaggio: profughi, preti, vescovi, giornalisti, volontari di Caritas, Sant’Egidio, Ordine di Malta. Non una percezione ma una conferma ricevuta da loro stessi: «Grazie!» dicevano in italiano, in inglese, in ucraino, in russo.
Grate erano anche le donne in fuga da Kiev, Kharkiv, Odessa, riunite in un centro sportivo divenuto centro accoglienza alla periferia di Budapest. Volevano solo stringere la mano al cardinale fuori dalle loro stanze, ma una, Tamara, si è fatta avanti per raccontare la sua fuga da Kiev. Impaurita da bombe e sirene, per la fretta ha lasciato a casa il cellulare: «Ho girovagato per giorni senza comunicare né avere notizie dei miei figli rimasti in un bunker». L’hanno seguita le altre con i loro racconti: Marina con la figlia Nadja, disabile intellettiva, che da Kharkiv ha preso un taxi fino al confine con la Moldavia. Natalia, fuggita dal Donesk, intrufolatasi una notte in un albergo abbandonato per dormire sul tavolo del ristorante. Le sorelle Dana e Danjra in viaggio per quindici ore, da sole, a 18 anni, in macchina. E ancora altre, sempre donne, sempre ucraine, voci del dolore di un popolo intero.
di Salvatore Cernuzio