“Benvenuti in Ucraina” recita un cartello sbiadito, coperto da rami secchi, alla frontiera di Barabás, confine tra Ucraina e Ungheria. Quasi una battuta amara guardando all’abisso che il Paese est europeo è divenuto dalla notte del 24 febbraio. Alla frontiera ci sono almeno una cinquantina di macchine in attesa di superare i controlli serrati e lentissimi della dogana. Dalle 17.20 alle 20, una camionetta bianca con a bordo cinque persone avanza di soli sei posti. Il cardinale Michael Czerny, prefetto ad interim del Dicastero per lo Sviluppo umano integrale, inviato dal Papa in Ungheria per dare conforto ai profughi ucraini, supera il confine nel tardo pomeriggio. «Andiamo dall’altra parte», dicono i due sacerdoti ungheresi che lo accompagnano in macchina.
La direzione è Beregove, villaggio della Transcarpazia risparmiato dalle bombe ma divenuto tra i principali punti di ammassamento dei profughi. Il tragitto dura meno di venti minuti. La periferia è deserta; in lontananza si vede una “dacia”, tipica residenza russa di campagna. «Lì stanno i profughi ricchi», ci spiegano. Beregove è infatti teatro di una lotta tra poveri, di profughi contro profughi. Alcuni ucraini pare chiedano fino a 2.000 hyrvnya per aiutare i connazionali a superare il confine o procurare agli uomini un certificato di cattiva salute e aggirare così la legge marziale. Molti si offrono pure di trasportare i profughi fino a Budapest a prezzi gonfiati. E tanti accettano, diffidando dei pullman ungheresi che attendono fuori frontiera, soprattutto le donne che temono di essere rapite e messe in strada.
Czerny entra in un convitto in costruzione: doveva essere un dormitorio per studenti, ora è un rifugio. Il nome è complesso ma si sarebbe potuto chiamare “Fratelli tutti” visto che raccoglie gli sforzi di cattolici di rito latino e greco-cattolici, protestanti, riformati. «Siamo tutti il Buon samaritano chiamato ad aiutare il prossimo. Se non cooperiamo, non possiamo dare un aiuto reale», spiegano i rappresentanti delle diverse confessioni. All’emissario del Papa raccontano l’incontro-scontro con i drammi di famiglie spezzate dalla morte o la separazione di un familiare oppure il rammarico di soldati russi trovatisi loro malgrado in mezzo a una guerra. «È una Via Crucis per il nostro popolo», sussurra il vescovo Péter Miklós Lucsok, «tanti sono pronti ad andare sul Golgota per difendere libertà e dignità umana».
Al cardinale chiedono di ringraziare il Papa per la posizione mantenuta sul conflitto e «per aver fatto risuonare in Vaticano la campana della piccola Ucraina». «Siamo tutti poveri di fronte alla sfida della guerra», esordisce il porporato, che incontra alcuni profughi nel convitto. Tra loro Glib, 14 anni, fuggito con le sorelle. «Dove vuoi andare?». «Non lo so, voglio solo tornare a casa».
Parlano di casa anche le centinaia di persone ammassate nel centro Caritas di Barabás. C’è chi rimpiange la casa devastata dai colpi di mortaio a Kiev; chi chiama casa l’alloggio che lo attende in Germania, Polonia o negli Usa.
Non è facile gestire i ritmi di arrivi e trasferimenti: 80 persone vengono annunciate nelle poche ore che il cardinale compie un giro del palazzetto, tra letti e tavoli con cibo, giochi, vestiti. «Stiamo lavorando poco. Solo 24 ore al giorno…», dice il coordinatore Caritas.
«Grazie del vostro lavoro. Il Santo Padre mi ha detto di portarvi la sua benedizione e questo faccio», sottolinea il cardinale Czerny, ringraziando i giornalisti: «Continuate il vostro servizio con la benedizione del Papa. Che la verità esca, che la verità sia conosciuta».
In tarda serata il porporato condivide coi profughi un panino e una bevanda calda. Intorno a lui si avvicinano tante donne: «Spasiba», esclama una ragazza; «ci abbiamo messo sei giorni per spostarci da una regione all’altra», racconta un’altra. Una signora col colbacco spiega invece di essere fuggita nel 2014 da Donesk e di essersi rifugiata a Karkhiv, ora devastata dalle bombe. La guerra l’ha inseguita e si trova di nuovo in fuga. Czerny sta per benedirla ma la sua mano viene intercettata da Inna, anziana poetessa di Kiev: «Sono ebrea, ho cittadinanza ucraina, parlo russo. Il Signore vuole che non concorriamo ma che ci impegniamo per il bene».
Nella prima mattinata il cardinale aveva incontrato il vice premier ungherese, Zsolt Semjén, che ha ribadito la volontà del governo di accogliere i profughi «senza limitazioni». Un atteggiamento che Czerny ha auspicato possa diventare permanente, non limitandosi solo all’emergenza: «Le braccia siano sempre più aperte».
Da Beregove
Salvatore Cernuzio