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I nonni non sono baby sitter

 I nonni non sono baby sitter  DCM-004
02 aprile 2022

Come vivere il rapporto con i nipoti: una esperienza personale


Prendere i bambini a scuola, portarli in piscina il martedì e il giovedì, a musica il mercoledì, tenerli il pomeriggio quando entrambi i genitori lavorano, accudirli durante inevitabili raffreddori e influenze, preparare qualche pasto quando mamma e papà fanno tardi al lavoro. I giovani nonni del millennio assomigliano sempre di più a baby sitter, sostituti di genitori affaccendati e di uno stato sociale quasi inesistente. Fanno ciò che altri nella gestione della famiglia non possono fare, lubrificano una quotidianità aspra e danno oltre all’impegno e il tempo la garanzia dell’affetto, della cura, della sicurezza. Ma è giusto che sia così? È bello e utile che la figura dei nonni sia questo? Spesso solo questo? Che non sia immaginabile per loro un ruolo più fecondo?

Quando mi vengono affidati i miei nipoti — e ne sono felice — di fronte alle incombenze quotidiane, alle corse fra una lezione di nuoto e una di piano mi capita di pensare «ma io non sono la baby sitter, sono la nonna». E il compito della nonna o del nonno non è, non dovrebbe essere quello che altri svolgono per denaro o necessità.

Che cosa sarebbe utile, allora, che fossero i nonni oggi? Eviterò qui frasi roboanti come quella secondo cui i nonni “rappresentano il legame fra generazioni”, oppure “l’unità della famiglia”. Mi guarderò bene dal dire che sono “la memoria e il passato senza cui presente e futuro perdono valore”. Che “favoriscono il dialogo fra generazioni”. Che in tempi di divorzi e separazioni frequenti continuano a raccontare “l’importanza l’unità familiare”. Ma fra la retorica e l’utilizzo banale ed economico, il ridimensionamento di una figura affettivamente importante, ci sarà una via di mezzo o meglio un’altra via, una via diversa.

Nella mia decennale esperienza di nonna me lo sono chiesto e mi sono data alcune risposte. Il ruolo non può essere che quello che i nonni vorrebbero e sentono proprio. Sono loro che hanno il diritto-dovere di disegnare i loro compiti, di immaginare la relazione con i nipoti. Sono loro che devono uscire dai confini che una società produttivistica e consumista ha disegnato. Così come hanno cercato di determinare la loro vita, il loro lavoro, i loro affetti negli anni della gioventù e della maturità, devono definirli nel momento in cui diventano nonni. Guardare criticamente al ruolo che si vuole loro imporre e cambiarlo. “Nonni di tutto il mondo ribellatevi”, mi verrebbe di dire, se anche questa frase non risultasse stantia.

E allora che cosa dobbiamo pretendere noi nonni?

Intanto di vivere pienamente il rapporto d’amore con i nipoti. Completo, senza obblighi, senza scambi, senza limitazioni. Neppure le “buone limitazioni”, quelle imposte dalla necessità di insegnare e di educare. I nonni, infatti, non devono insegnare, non devono indicare alcuna retta via, non devono suggerire il loro avvenire. Hanno una pretesa limitata ma fortissima: stare con i nipoti nello spazio di vita che per loro è l’ultimo e vedere, godere della presenza di chi è venuto dopo di loro e dopo i loro figli. Se l’amore è sempre un dono, quello fra nonni e nipoti lo è ancora di più.

Vogliono dare. Moltissimo. Senza nulla in cambio. Perché i nonni, liberato il loro ruolo dalla retorica e dall’utilitarismo, hanno moltissimo da offrire. Sicurezze, storie, giochi impensabili, carezze illimitate, prospettive sconosciute, realtà misteriose. La loro vita per i nipoti è un arcano, tutto da scoprire.

Vogliono continuare a sorprendersi. Perché se la maternità e la paternità sono stupefacenti, “la nonnitudine” lo è di più. Non è solo il compimento di uno straordinario processo naturale ma il completamento del suo significato. I nipoti sono la vita che si prolunga oltre la morte, il quotidiano assume un significato universale e eterno.

I nonni vogliono raccontare. Storie vere e storie inventate, i romanzi che hanno letto e la vita che hanno vissuto. E non solo perché ai nipoti i loro racconti piacciono, piacciono moltissimo, e starebbero ore a ascoltarli. Ma perché attraverso l’accoglienza dei più piccoli rivedono e riordinano la propria vita. Danno a essa un senso. Attraverso gli occhi di un nipote vedono meglio ciò che sono stati e che sono. Possono osservare meglio come il tempo ha scolpito il loro carattere.

Per essere nonni ci vuol tempo, tempo gratuito, tempo non ostacolato da una quotidianità incalzante. L’organizzazione sociale lo ha previsto con la conclusione della vita lavorativa, il pensionamento. Ma poi quel tempo lo ha voluto indietro costringendo anche i nonni alle regole di una frenesia quotidiana. Quella che domina il mondo del lavoro, dove i genitori sono troppo occupati per seguire gli impegni dei figli e quella “educativa” (e metto questa parola, non a caso, fra virgolette) che impone ai bambini una corsa continua fra attività e l’altra. Ai bambini il mondo degli adulti pretende di insegnare molto. E non si accorge che in questo modo li educa solo a consumare di più, a introiettare una logica dello scambio anche negli affetti (per essere amato devi essere performante nella musica, nella ginnastica, nella lingua straniera).

I nonni, se riuscissero a fare i nonni, darebbero alle nuove generazioni l’unica sostanza che nella vita scarseggia: la gratuità e la illimitatezza dell’amore che nulla pretende se non di esprimersi nei mille modi in cui può farlo. Senza volere nulla in cambio, neppure la cultura, la buona educazione, la capacità. Proprio nulla.

I nonni viziano, si dice. Ma che cosa sono “i vizi” se non la fuoriuscita dalle regole che il mondo degli adulti — non ancora vecchi — vuole imporre ai bambini? Che cosa sono se non la libertà di amare fuori dalle regole?

Per fortuna fra una corsa a scuola e una al campetto, una lezione di musica e una di inglese qualche minuto rimane. Quel che basta per sentire la magia della nonnitudine e per rimpiangere di doverci rinunciare tanto spesso.

di Ritanna Armeni