· Città del Vaticano ·

Giornata internazionale contro l’impiego dei minori nei conflitti armati

L’infanzia negata

Children role play with dummu guns as thousands of South West Africa People's Organisation (SWAPO) ...
12 febbraio 2022

«RedHandDay»: questi l’hashtag e il logo della Giornata internazionale contro l’impiego dei minori nei conflitti armati che ricorre il 12 febbraio. Una Giornata della mano rossa come il sangue, per dire basta ad un fenomeno drammatico contro il quale leva la sua voce anche Papa Francesco, in un tweet diffuso dal suo account @Pontifex e contrassegnato dal medesimo hashtag.

La data del 12 febbraio ricorda l’entrata in vigore, nel 2002, del Protocollo opzionale alla Convenzione dell’Onu sui diritti dell’infanzia nel coinvolgimento dei bambini nelle guerre.

Bambini-soldato è un ossimoro. Terribile, tremendo, terrificante. Eppure, accade sempre più spesso, in diverse parti del mondo, di vedere minori reclutati con la forza e costretti a combattere tra le fila di gruppi armati.

Quantificare un simile dramma in modo esatto è impossibile, perché mancano dati precisi. Secondo l’Unicef, nei primi tre mesi del 2021, i casi di rapimento e violenza sessuale a scopo bellico sono cresciuti rispettivamente di oltre il 50 e il 10 per cento rispetto al primo trimestre del 2020. Gli episodi più numerosi si sono registrati in Africa. Ma negli ultimi sedici anni, l’Onu ha verificato 266.000 casi di gravi violazioni contro i bambini in più di trenta situazioni di conflitto in Africa, Asia, Medio Oriente e America Latina.

Da ulteriori analisi di Save the Children, inoltre, risulta che nell’arco di tre decenni, il numero di minori che vivono in zone di conflitto a rischio di reclutamento è triplicato: «Da 99 milioni di bambini e adolescenti nel 1990 si è passati a 337 milioni nel 2020 — spiega a «L’Osservatore Romano» Daniela Fatarella, direttrice generale di Save the Children Italia —. Solo nel 2020, l’Onu ha registrato nuovi 8.595 casi verificati». E si tratta della “punta di un iceberg”. Il Medio Oriente, inoltre, registra il più alto tasso di minori che vivono in zone di guerra (33 per cento) e più a rischio di utilizzo. Al secondo posto, c’è l’Africa dove 1 bambino su 6 corre il pericolo di essere reclutato. Inferiori, ma non meno gravi, le percentuali di Asia, Americhe ed Europa, pari rispettivamente al 13, 8 e 2 per cento.

Allarmante è anche il reclutamento forzato delle ragazze: «Quasi il 75 per cento dei conflitti coinvolge bambini, e ben oltre la metà di questi ha incluso le bambine», dice al nostro giornale Andrea Iacomini, portavoce di Unicef Italia. Gli esempi purtroppo non mancano: «In Africa, quasi il 40 per cento delle ragazze reclutate partecipa direttamente alle ostilità» e diventa protagonista, suo malgrado, di «attacchi suicidi», mentre in Medio Oriente alcuni gruppi armati «hanno unità di sole donne per l'uso di armi tattiche».

Oltre ai rapimenti, le giovani vengono arruolate forzatamente anche attraverso i matrimoni precoci, con cui «sono costrette a sposare combattenti adulti e a vivere sotto il loro controllo, spesso sottoposte a violenza sessuale quotidiana».

Ma cosa trasforma un bambino in un bambino-soldato? Molteplici ragioni: «Alcuni minori vengono rapiti, minacciati, costretti o manipolati da attori armati — sottolinea Iacomini —, altri sono spinti dalla povertà, costretti a generare reddito per le loro famiglie; altri ancora si associano per sopravvivere o per proteggere le loro comunità». A pesare, aggiunge Fatarella, sono anche «l’accesso ridotto all’istruzione» e la pandemia da covid-19 che negli ultimi due anni «ha rafforzato i fattori di reclutamento» tra i più piccoli, «spesso considerati meno propensi a mettere in discussione l’autorità». Il loro arruolamento diventa così «un’arma vera e propria di terrorismo psicologico su intere comunità», perché rappresenta «un metodo per distruggere le famiglie e il tessuto sociale».

Restituire ai bambini-soldato una nuova vita non è semplice. Secondo il portavoce di Unicef Italia, occorre analizzare «i motivi sociali che portano al loro reclutamento» e poi «dare continuità agli interventi di prevenzione e recupero». «Non potremo restituire l’infanzia negata, ma possiamo garantire loro il futuro che meritano», ribadisce Iacomini. Gli fa eco Fatarella, per la quale bisogna «supportare i meccanismi internazionali volti a perseguire i casi di violazione dei diritti dei minori nei conflitti armati attraverso l’introduzione di risorse dedicate, con competenze sull’infanzia nei sistemi di investigazione e nei tribunali internazionali».

Per un ex bambino-soldato, il ritorno alla normalità è un processo complesso, sottolinea ancora Fatarella, perché «chi ha vissuto in un ambiente che normalizza la violenza è a più alto rischio di problemi psicologici o di salute mentale» e può essere portato ad allontanarsi dai familiari, senza riuscire poi a «sviluppare e mantenere relazioni e fonti di reddito». Il reclutamento dei bambini nei conflitti armati «aumenta le divisioni sociali» all’interno delle comunità, finendo a volte per creare «un circolo vizioso dove la marginalizzazione e la mancanza di accesso a servizi e a opportunità di reddito rafforza le condizioni del reclutamento forzato».

Anche l’Unicef sostiene progetti per «la liberazione e il reintegro di migliaia di bambini appartenenti a gruppi armati — racconta Iacomini — fornendo loro un posto sicuro in cui vivere al momento del rilascio, oltre a servizi comunitari per la gestione del caso, la ricerca della famiglia e il sostegno psicosociale» e creando possibilità di istruzione e di lavoro. Un impegno ripagato dai fatti: in Sud Sudan, ad esempio, dal 2013, il Fondo Onu per l’infanzia ha contribuito al rilascio e al reintegro di «oltre 3.700 bambini associati a forze e gruppi armati».

Perché a volte, il lieto fine non esiste solo nelle favole.

di Isabella Piro