· Città del Vaticano ·

La testimonianza di John Baptist Onama

«Io, bambino-soldato
salvato dai comboniani»

 «Io, bambino-soldato   salvato dai comboniani»  QUO-035
12 febbraio 2022

«Mi ricordo tutti i dettagli, ancora oggi»: esordisce così, nell’intervista al nostro giornale, John Baptist Onama. I dettagli cui si riferisce sono quelli della sua vita da bambino. Una vita da bambino-soldato.

Nato in Uganda nel 1966, a soli 14 anni viene reclutato forzatamente dall’esercito: sono gli anni che seguono la deposizione e la fuga del generale Idi Amin Dada, che dal 1971 al 1979 guida l’Uganda con un regime caratterizzato da una feroce violenza razziale contro le etnie acholi e lango e la comunità asiatica presente nel Paese. Il dittatore viene deposto nel 1979 dall’esercito tanzaniano, sostenuto dai ribelli dell’Uganda National Liberation Army, che salgono al potere nel 1985. L’anno dopo vede la vittoria del Movimento di resistenza nazionale di Yoweri Museveni, ancora oggi a capo della Nazione africana.

È l’ottobre del 1980 quando Onama viene reclutato con la forza per la prima volta. Resta nell’esercito per un mese, poi riesce a fuggire. A marzo 1981, i militari lo costringono nuovamente ad entrare nelle loro fila e questa volta vi rimane per sei mesi. Del giorno della cattura John ricorda tutto: «Io e un mio fratello nascosti in casa, in soffitta, e i soldati che cercano qualcosa da rubare e ci scoprono; la marcia forzata fino al posto di comando; la separazione da mio fratello; l’interrogatorio da solo davanti ai comandanti; l’accusa di fare parte dei ribelli e la minaccia di essere fucilato e infine la “concessione”: aver salva la vita in cambio della mia collaborazione».

Onama conosce bene il territorio e viene aggregato, come “guida locale”, ad un plotone che pattuglia la zona: si tratta di un’ampia area di decine di km quadrati che si estende fino al confine con il Sudan. Una vera e propria “terra di nessuno”, racconta John, nella quale i ribelli, in piccoli gruppi, riescono ad agire quasi indisturbati contro l’esercito governativo: «In pochi giorni, con le loro imboscate, erano riusciti a rendere inutilizzabili gli unici due collegamenti stradali». Lo scenario è confuso e vede «una serie infinita di scontri armati completamente senza regole», spiega Onama: l’esercito governativo e i ribelli si affrontano «in una carneficina invisibile al mondo civile, nella quale nessuno è tenuto a rendere conto delle proprie azioni».

I miliziani tendono imboscate continue ed hanno la fama di essere atroci torturatori: «Per loro — racconta John — era importante risparmiare le pallottole. Quindi quando catturavano qualcuno, lo legavano mani e piedi e lo uccidevano lentamente, tagliandolo a pezzi».

A tanta ferocia, le truppe governative, rabbiose e impaurite, rispondono con altrettanta violenza, cieca e disumana, che colpisce anche i civili: le persone sospettate di appartenere ai ribelli vengono interrogate brutalmente, bastonate o fucilate in esecuzioni di massa. «Ho dovuto partecipare anche io alle uccisioni di ribelli — ricorda John Baptist — e, qualche volta, anche a quelle di civili. In questi ultimi casi, facevo tutto il possibile per sbagliare mira e sparare un po’ più in alto».

Di quegli anni terribili, Onama conserva ricordi molto dolorosi, legati a figure femminili: «Ho incrociato lo sguardo con un’anziana parente a cui volevo molto bene e che era stata violentata; ho assistito allo stupro di gruppo e all’assassinio di una ragazzina di solo 12 anni e ho ascoltato le ultime parole rivolte da una donna al suo assassino: “Figlio mio, perché mi uccidi?”». Ma nella memoria, John custodisce anche immagini meno atroci: «Un giorno, durante un pattugliamento in una radura, abbiamo trovato un bambino, accanto al corpo senza vita di sua madre. E il nostro tenente ha incaricato alcuni soldati di portare il piccolo alla missione cattolica: in mezzo a tante barbarie, è stata salvata una vita innocente!».

In un’altra occasione, un caporale ha lasciato scappare un gruppo di civili, invece di fucilarli, ed ha nascosto la loro fuga sparando in aria alcuni colpi di fucile. «Una volta tanto, qualcuno ha avuto il coraggio di fermare il macabro massacro quotidiano!», racconta Onama.

Nel novembre del 1980, terminato il primo periodo sotto le armi, John incontra Suor Veronica Landonio, preside della Bishop Negri Primary School, eretta dai Comboniani a Gulu: «Una donna meravigliosa — ricorda — che mi accoglie solo leggendomi negli occhi il terrore e la disperazione di un quattordicenne che scappava da qualcosa di terribile e non sapeva dove andare». Poi i militari lo reclutano di nuovo, ma del suo caso viene a conoscenza monsignor Cypriano Kihangire, vescovo di Gulu: nel 1981, il presule è presidente del Consiglio d’amministrazione del Joseph’s College-Layibi, fondato dai Comboniani, e fa iscrivere John, consentendogli di proseguire gli studi. Insieme alla formazione culturale, Onama riprende anche la formazione alla fede: «È lì che ho cominciato ad imparare a convivere con i miei incubi di guerra e a elaborare il perdono nei confronti dei miei carnefici. Per me si è trattato, e si tratta tutt’ora, di uscire dall’angolo, a volte forse troppo comodo, di considerarmi la “vittima di una situazione”; si tratta di lottare per non ripiegarmi sui miei dolori e vedere anche le necessità degli altri». In sostanza, significa praticare «una misericordia “in uscita”: se ricevo gratuitamente il perdono, anch’io gratuitamente devo darlo agli altri; se mi accorgo di essere amato gratuitamente, anch’io devo amare gratuitamente».

Nell’ottobre 1988, sempre grazie ai Comboniani, John arriva in Italia. Supportato da una famiglia del Veronese, consegue la maturità. Successivamente, si iscrive all’Università di Padova e si paga gli studi lavorando come lavapiatti. Nel 2003, si laurea in Scienze politiche cum laude e con una tesi dedicata all’economia nell’Africa sub-sahariana. Passano gli anni e Onama riesce a riabbracciare i genitori ed i fratelli che lo credevano morto. Oggi John vive a Padova e dedica la sua vita all’insegnamento: è docente universitario sia in Italia che in Germania, ma è anche il testimone vivente di un dramma senza pari e spesso viene invitato nelle scuole perché gli studenti possano ascoltare le sue parole.

«Il fenomeno dei bambini-soldato è deplorevole — sottolinea — Si potrebbe facilmente sconfiggere se ci fosse una vera volontà di farlo, soprattutto politica. Al mondo, ci sono sufficienti risorse per abbattere la fame e la povertà, i due principali fattori che generano le ingiustizie e alimentano le guerre. Mancano però l’indirizzo e il coordinamento per poter realizzare un progetto compiuto e duraturo». Gli strumenti internazionali di contrasto esistono: ad esempio, la risoluzione Onu 51/77 del 1997 ha istituito un Rappresentante speciale del Segretario generale per i bambini nei conflitti armati e nel 2002 il Protocollo opzionale alla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia nel coinvolgimento dei bambini nelle guerre ha permesso di inquadrare l’uso dei minori nei conflitti armati come una forma di moderna schiavitù. Ma questo non basta: «Non si può assicurare la giustizia sociale solo attraverso gli strumenti giuridici o tramite interventi umanitari, specie quelli di emergenza — ribadisce Onama — Ci vogliono anche delle misure idonee di prevenzione, ovvero investimenti nella cultura della solidarietà e della non violenza», in modo da sconfiggere quella «cultura del profitto» che mette insieme «banche, produttori di armamenti, venditori e trafficanti di armi, governi, signori di guerra e, infine, i poveri e gli affamati».

L’ultima riflessione, John Baptist la riserva alle prospettive del suo Paese natio: «L’Uganda sta in Africa e l’Africa sta nel mondo — conclude — Quindi il futuro e il destino dell’Uganda saranno dettati dalle dinamiche dell’interdipendenza globale. Sono convinto che ad ogni latitudine e da tutte le parti servano ancora più sforzi in favore del dialogo e dell’attenzione ai diritti umani». In fondo, come diceva Julius Nyerere, politico e padre fondatore della Tanzania, «Kila mwana damu ni ndugu yangu, na Afrika ni moja!» ossia «Ogni essere umano è mio fratello, e l’Africa è una sola!». (isabella piro)