· Città del Vaticano ·

Da un’opera d’arte a uno stile ecclesiale

Io vivo e voi vivrete

 Io vivo e voi vivrete  QUO-029
05 febbraio 2022

Se c’è un’opera d’arte da rimirare in occasione della 44ª Giornata per la Vita che la Chiesa italiana celebra domenica 6 febbraio, questa è certamente la Risurrezione di Gesù di Piero della Francesca. Osservare il Signore che esce dal sepolcro, in questa giornata, significa anzitutto ricordare che la vita umana non è un tema fra i tanti dell’esperienza cristiana o di questo tempo, bensì il centro, il suo nucleo fondante. Il cristianesimo è proclamazione di una vita piena, su cui neanche il dramma della morte può dire l’ultima parola. Il cristianesimo è la religione dei sepolcri spaccati e della vita per sempre.

C’è però un secondo motivo che rende particolarmente pertinente questo dipinto. Gli storici dell’arte sono concordi nell’affermare che il quadro di Piero della Francesca ha un tono metafisico: la scena è costruita in modo rigorosamente geometrico, il corpo di Gesù, collocato fuori dalle regole prospettiche del resto del dipinto, è quello di una statua greca e il suo sguardo si perde nel vuoto. Ciò che la scena raffigura sembra non appartenere alla storia, allo spazio e al tempo che è quasi sospeso, addormentato come i soldati ai piedi del sepolcro. Eppure, in quest’opera che vuole mostrare la risurrezione da una prospettiva ideale, Piero della Francesca, in obbedienza al racconto evangelico, non può non raffigurare le piaghe che segnano il corpo di Gesù. Addirittura, la ferita del costato sembra quasi ancora sanguinare. L’annuncio della risurrezione, infatti, non ci offre un ideale astratto della vita umana. Gesù, non evita la storia, non la considera come un accidente complesso e tragico che, prima o poi, sarà superato. Il suo corpo risorto è un corpo piagato, guarito e piagato. Questo è ciò che i cristiani annunciano e proclamano da duemila anni: le piaghe di Gesù sono andate in paradiso.

Se, doverosamente, collochiamo l’agire ecclesiale riguardo la vita umana nella logica della Pasqua, questa storicità insuperabile diventa centrale: essa è contenuto e metodo.

È contenuto: al centro dell’attenzione ci devono sempre essere le persone concrete, i loro volti e le loro scelte; tutti, nessuno escluso, gli innocenti e anche i peccatori. La storia impone (anche al paradiso) i plurali e i pluralismi, che mai possono essere esaustivamente ricondotti a idee e valori. Lo dice bene Papa Francesco in Evangelii gaudium, 231: «La realtà è superiore all’idea. Questo implica di evitare diverse forme di occultamento della realtà: i purismi angelicati, i totalitarismi del relativo, i nominalismi dichiarazionisti, i progetti più formali che reali, i fondamentalismi antistorici, gli eticismi senza bontà, gli intellettualismi senza saggezza».

Saremo evangelici e kerigmatici se e quando eviteremo la tentazione di ridurre la vita umana a un valore da difendere e proclamare, da idealizzare o addirittura idolatrare. Saremo evangelici e pasquali se e solo se esprimeremo un giudizio potendo guardare con occhi misericordiosi chi ci sta davanti, anche, o proprio, con le sue piaghe fisiche e morali.

Da questo sguardo nasce un metodo, uno stile, almeno secondo due direttrici. Anzitutto il primato della narrazione: i dettagli si custodiscono e si rivelano nelle storie particolari, ognuna diversa dall’altra, ognuna collocata in un contesto preciso e in un dinamismo proprio. Non possiamo giudicare le scelte e i comportamenti delle persone solo con schemi e criteri generali: risultano poveri e miseri se utilizzati in modo asettico, soprattutto davanti a drammi e fatiche. Men che meno possiamo sfruttare le tragedie personali per difendere idee precostituite: un’operazione tra le più tristi e sciatte cui ogni tanto si assiste.

In secondo luogo, l’orizzonte pasquale impone il passaggio da un approccio difensivo a uno propositivo. L’annuncio della risurrezione, che complica incredibilmente la nostra comprensione della natura, è offerto a tutti. Una Chiesa che si fa carico delle vite degli uomini, non può essere costituita da un popolo chiuso tra le mura tristi del cenacolo, impaurito per un mondo esterno percepito ostile, nostalgicamente prigioniero di un passato mitizzato, incapace di una parola diversa da una ripetizione pedante di alcuni principi. Custodiremo (è il verbo scelto dalla Cei nel suo messaggio di quest’anno) le vite delle donne e degli uomini, dei piccoli e degli anziani, dei sani ed egli ammalati, se eviteremo la tentazione dell’arrocco difensivo o della dismissione pessimista, abitando i contesti vitali, uscendo dalle quattro mura parrocchiali e associative, assumendoci il rischio di un discernimento che cerca sempre il maggior bene possibile e che non rifiuta mai il dialogo e il confronto, anche su ciò che riteniamo, giustamente, infinitamente prezioso.

Come Gesù, che proclama la buona notizia in riva al lago, per le strade, a una festa di matrimonio, raramente nel tempio. Come Gesù, che custodisce le vite ferite con parole di misericordia e mai di condanna. Questa conduce alla morte, come la lettera della legge (cfr. Romani, 7), quella è annuncio di grazia che rigenera e dona nuova vita.

di Andrea Ciucci