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Essere padri
Essere figli

 Essere padri Essere figli  QUO-027
03 febbraio 2022

«Essere padri significa introdurre il figlio all’esperienza della vita, alla realtà. Non trattenerlo, non imprigionarlo, non possederlo, ma renderlo capace di scelte, di libertà, di partenze». Così scriveva Papa Francesco nella lettera apostolica Patris corde. E più di recente, nell’intervista rilasciata a questo giornale il Santo Padre ha ripetuto il concetto applicandolo anche alla Chiesa «che deve recuperare questo aspetto paterno» cioè proprio quella capacità «tutta paterna di mettere i figli in condizione di prendersi le proprie responsabilità, di esercitare la propria libertà, di fare delle scelte». Sono parole per me incandescenti, sulle quali ho tenuto fisso lo sguardo per molto tempo e ho continuato a riflettere, cercando di dare un senso alla storia con mio padre, morto di cancro lo scorso anno. Il rapporto paterno assunse toni drammatici a causa dalla scelta di seguire più da vicino il Signore. Non volle accogliere Cristo e maledisse sé stesso per avermi educato alla libertà. La Parola si fece carne e sanguinò in questa vicenda: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada. Sono infatti venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera» (Matteo 10, 34-35).

Diffidava dei preti e chissà quale futuro sognava per i figli. La mia partenza ebbe il sapore del non ritorno a casa. Mai una sua telefonata in tanti anni di vita religiosa. Non mise mai piede in convento. Si alzarono muri invalicabili, lunghi silenzi e dissapori. Disse più volte ai fratelli che piangeva un figlio morto. Mi rassegnai alla sua assenza, un dolore a tratti insopportabile. Un figlio ha bisogno di sentire vicino suo padre. Un momento terribile era quando il seminario accoglieva i genitori per trascorrere una giornata insieme ai loro figli. Io lì ad attendere nessuno.

La storia paterna è intessuta di letteratura e di musica. Furono le parole di Dante a portarci la salvezza, ci ricreammo attraversando insieme l’inferno. Mio padre entrò in convento soltanto qualche settimana prima di morire e non di sua spontanea volontà. Arrivammo in largo anticipo in ospedale per le terapie. La mia casa è a cinque minuti dal nosocomio. In attesa del suo turno, lo condussi nel mio studio e lo feci riposare un poco, in mezzo ai vinili e ai libri di letteratura che mi appassionano.

Seduto su quel divano, si guardò intorno spaesato. Rimase colpito dai tanti dischi e volumi accatastati sulla libreria. Avrei voluto dirgli che lì c’erano gli amici che mi avevano condotto da lui, Dante soprattutto che mi spinse verso le sue sepolture. Non permettevo a Dio d’entrare in quella tenebra. Non capivo perché da Lui non arrivava l’aiuto sperato. Il Signore mostrò il mio errore: non avevo mai pregato per la conversione di papà. Avevo il cuore indurito e diventai sterile nel servizio sacerdotale. Rinunciai alla paternità spirituale, smisi di esercitarla sui miei figli, perché incapace di sentirmi figlio di qualcuno.

Il Signore che è ostinato e buono mi raggiunse lo stesso. Utilizzò la Commedia di Dante commentata da Franco Nembrini, un libro incrociato per caso in una libreria. Una voce interiore o l’istinto mi comandarono di leggerlo. Ne seguì una battaglia interiore che mise in discussione la mia fede, la vocazione, il rapporto con Cristo. Entrai in una crisi di fede profondissima: mi sentivo inadeguato al mistero che ogni giorno celebravo sull’altare, di quel sacrificio non volevo sentirmi responsabile, da quella cena volevo scappare ma senza l’Eucarestia non so vivere. Pareva d’ingannare il Signore, di sconfessarlo, perché aiutavo malvolentieri mio padre e allontanavo le persone che chiedevano consigli o una direzione spirituale. Ero sul ciglio di un burrone, sarebbe bastata una spinta per morire. La riconciliazione fu incoraggiata da un disco degli Afterhours, Folfiri o Folfox, titolo composto da due abbreviazioni chimiche che indicano diversi trattamenti chemioterapici. Immagino lo stupore del lettore. Chi ci salva, Dio o l’arte? Se ti fai sordo a Lui e gli chiudi la porta, troverà una finestra aperta o un pertugio qualsiasi per venirti a cercare. In quel disco il cantante Manuel Agnelli elabora la morte del padre causata da un tumore con la stessa sensibilità che ha segnato la mia esperienza. Quell’album cominciai a suonarlo ripetutamente sul giradischi. Intercettai un dolore simile al mio. Guardavo, come si fa con un quadro, la copertina del disco e la copertina interna in cui è rappresentata la passione, morte e resurrezione di un malato di cancro.

Tenebre e orrore travolsero mio padre in breve tempo. Lo aiutai nell’ospedalizzazione, gli ultimi due anni della sua vita furono i giorni che ho vissuto da figlio. Ero nella stanza vicino la sua camera da letto, dove riposava. La tv era accesa, abbassai il volume al minimo, stavo ascoltando ancora quel disco. Casualmente nelle cuffie arriva una strofa del brano L’odore della giacca di mio padre: «Tuo padre nel suo letto / Tu guardi la tv / E ti chiedi se hai risposto ai suoi occhi con i tuoi / Che sai navigare in un mare d’amore anche senza di lui». Mi ricordò il primo giorno del nostro calvario. Bastò uno scambio di sguardi per ritrovarci nel reparto di Oncologia, fui vinto dai suoi occhi pietosi ed invece avrei voluto abbandonarlo al suo destino. Ripetevo a memoria le strofe della canzone, pensavo alle parole di Dante per affrontare la prova più dura… ero pronto a lasciare papà un’altra volta? Rimasi con lui fino alla fine. Rifiutò i sacramenti, gli diedi l’assoluzione dai peccati quando entrò in agonia. Prima chiesi il suo perdono, lui mi ringraziò per avergli dato la vita.

L’arte è una via attraverso cui Dio si rivela nella bontà e nella verità, anche quando il sentiero si fa scosceso, fangoso e pieno d’insidie, quando l’oscurità ti avvolge e non vedi più nulla, quando smarrisci la retta via e perdi di vista gli affetti più cari. La musica e Dante mi hanno donato la salvezza, parole creatrici di una nuova storia familiare. Un’esperienza quella dell’arte che salva riassunta in alcuni versi del profeta Isaia, tra i più belli della Bibbia: «Farò camminare i ciechi per vie che non conoscono, li guiderò per sentieri sconosciuti; trasformerò davanti a loro le tenebre in luce». Si accese la Luce mentre scendevo le scale di un ospedale di periferia, volevo allontanarmi da mio padre, non reggevo la sua sofferenza. Il Signore mi riportò da lui, sussurrandomi su quelle scale versi di un canto dantesco, canticchiando la melodia di una canzone. Trasformò un luogo aspro in pianura perché il dolore non è mai la destinazione vera di una storia. Un padre e un figlio possono accorciare le distanze, essere guariti e non morire più. Non per meriti, ma per misericordia.

di Massimo Granieri