· Città del Vaticano ·

Sant’Ireneo di Lione

Mente e cuore panoramici

 Mente e cuore panoramici  QUO-017
22 gennaio 2022

Non sono un esperto di Ireneo, ma un suo devoto. Ho meditato l’Adversus haereses e prego il vescovo di Lione ogni mattina. Come i santi, i musicisti e i poeti, nemmeno i teologi si paragonano. Eppure ogni insegnante di teologia ha i suoi preferiti, la sua personale classifica. Secondo me, il più grande teologo del primo millennio (scusa Basilio, scusa Agostino) è Ireneo; i campioni del secondo (a pari merito): Bonaventura e Tommaso. Tra i tre: il vescovo di Lione.

Agli esordi della Chiesa e dell’avventura teologica, Ireneo è di poco preceduto da gente di alto profilo, Giustino in primis. Tuttavia, Giustino sta a lui come il talento al genio. Il talento indaga, spiega, approfondisce, argomenta, convince; il genio ha visione e apre una visuale. Ha mente e cuore panoramici: da una finestra vede e mostra l’universo. Ha l’udito sinfonico, capace di cogliere le voci di tutte le cose. Il talento è una boccata d’aria buona, il genio spalanca i polmoni.

Che felice notizia il conferimento del titolo di «Dottore della Chiesa» al vescovo di Lione. La sfumatura riconosciutagli è Doctor unitatis. In effetti, la sua vita è un arco di ponte, teso tra Oriente (Smirne) e Occidente (Lione). Due luoghi, culture, risonanze diverse dello stesso Vangelo, della medesima Chiesa. Il suo ponte resse quando una piena rischiò di erodere e allontanare le rive del fiume ecclesiale, durante la controversia sulla data della Pasqua.

Il suo gusto, il suo tatto per l’unità della Chiesa si sono accesi grazie al fiuto per un altro genere di concordia, ben più primitiva e originaria: quella tra la terra (adamà) e l’uomo (Adam). La Bibbia chiama “carne” quest’unico plasma che lega mondo, uomini e donne, animali, piante, fiori e cose. Ireneo prende sul serio questa espressione sorgiva dell’unità, perché sul serio l’ha presa Dio. È mozzafiato il coinvolgimento di Dio mentre stringe la terra e l’uomo in una parentela indissolubile: ci mette le mani, che sono il Figlio e lo Spirito (Adv. haer. v, 1, 3). Si sporca le mani con la polvere, per plasmare Adamo. Ha impastato «questa terra» non, come sostenuto dagli gnostici, una spirituale «fluida e diffusa» (Adv. haer. v, 15, 4). Perché quindi temere lo sporco della storia, quando il Creatore ha preso in mano la terra e il terrestre? Chi non onora questa prima parentela che accomuna tutto e tutti, difficilmente si appassionerà alle altre espressioni di concordia. Se si sbaglia mira, mancando l’unità della carne, capolavoro delle mani di Dio, si rischia di dividere proprio dove, anche con tutta onestà, si desidera unire. Esattamente come fa la gnosi: percorrendo scorciatoie spiritualiste, ignora la carne, e così divide tutto quanto tocca.

In ogni pagina di Ireneo vibrano le parole del Signore: «l’uomo non separi ciò che Dio ha congiunto». Ciò vale anzitutto per adamà e Adam. Da questa finestra, Ireneo vede e fa vedere tutto l’universo della salvezza, tutto l’universo di Cristo: l’unità dell’Antico e del Nuovo Testamento, la sinfonia di Creazione e Redenzione, la vera carne del Figlio di Dio, l’Eucaristia come legame di Cristo con tutte le cose e promessa della risurrezione dei corpi. Non stupisce che chi ha conferito a Ireneo il titolo di “Dottore della Chiesa” abbia firmato testi quali Laudato si’ e Fratelli tutti, dove affetto, pensiero e visione s’infiammano per quanto accomuna, poiché quel “comune” l’ha fatto Dio e per lui «niente è senza valore, né senza significato» (Adv. haer. iv, 18, 2). In Ireneo, l’amore per quanto è comune fa divampare la passione per l’unità della Chiesa. E viceversa. Chi oggi mina l’unità della Chiesa probabilmente non ha il gusto per quanto lo apparenta alla famiglia umana, per la sua fondamentale purezza. Chi è concorde con ogni carne ha l’alfabeto, la grammatica e il vocabolario per scrivere la poesia dell’unità della Chiesa.

Eppure questa visione sinfonica è così difficile. Rappresentò la prima grande fatica della Chiesa, l’iniziale minaccia alla sua unità. Preparandolo all’incontro col pagano e quindi impuro Cornelio, a Pietro affamato è offerta una visione: una grande tovaglia scende dal cielo, carica di animali, compresi quelli impuri. Una voce comanda all’apostolo di mangiare, ma egli rifiuta: «Non sia mai Signore, perché io non ho mai mangiato nulla di profano o di impuro» (At 10, 14). La voce celeste ribatte: «Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo profano» (At 10, 15). La voce insiste per tre volte! La visione incoraggia Pietro a non «chiamare profano o impuro nessun uomo», nessuna carne, a partire da Cornelio (At 10, 28). Ma il fatto è risaputo a Gerusalemme e quando Pietro vi si reca è aspramente rimproverato. La tensione creatasi nella Chiesa si comporrà (con molta fatica) solo nel cosiddetto “concilio di Gerusalemme” (At 15, 7-35). È significativo che, nella visione di Pietro, lo spunto per la scoperta della purezza d’ogni uomo sia innescato dalla ribadita purezza del gesto, tipicamente carnale, che accomuna ogni vivente: nutrirsi.

La prima grande minaccia all’unità della Chiesa non riguardò la risurrezione di Cristo e nemmeno la sua vera divinità, ma credere o non credere nella purezza, nella bellezza della concordia originaria tra terra (tutta la terra, tutti gli alimenti) e il terrestre Adamo, uscito dalle mani di Dio, portatore delle sue impronte digitali. Le odierne minacce all’unità non saranno forse nuove edizioni dell’antica? Una cosa è certa: se Ireneo si fosse trovato al posto di Pietro sulla terrazza di Giaffa, avrebbe subito mangiato di gusto.

di Giovanni Cesare Pagazzi