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Hic sunt leones

Vaccini: un abisso di diseguaglianze

An Ivory Coast fan registers to receive the vaccine against the coronavirus disease (COVID-19) at a ...
21 gennaio 2022

Un anno fa abbiamo assistito all’ingresso sul mercato dei vaccini contro il covid-19. Il problema è che ancora una volta si è evidenziata la frattura tra Nord e Sud del mondo.

In Italia, a metà gennaio, le persone che hanno completato il ciclo vaccinale primario sono state il 79,37 per cento della popolazione. Il 4,09 per cento era in attesa di seconda dose. Il 45,52 per cento aveva fatto la terza dose.

Complessivamente — contando anche il monodose e i pre-infettati che hanno ricevuto una dose — in quella data risultava, almeno parzialmente protetto, l’83,46 per cento della popolazione italiana.

Mentre in Africa, stando all’Africa Centres for Disease Control and Prevention, il 10,09 per cento ha completato il ciclo vaccinale primario e il 14,92 per cento ha ricevuto una dose. La divaricazione che emerge nella comparazione tra questi dati è dovuta alle disuguaglianze nell’offerta. Ad esempio, secondo la People’s Vaccine Alliance nelle sei settimane che hanno preceduto il Natale sono state consegnate all’Unione europea (Ue), al Regno Unito e agli Stati Uniti più dosi vaccinali contro il covid-19 di quante i Paesi africani abbiano ricevuto nel corso di tutto il 2021.

E la situazione è destinata a peggiorare se si considera che a seguito della diffusiva variante omicron si è registrato un aumento della domanda nei Paesi ad alto reddito.

A parte la scarsità delle dosi in circolazione nell’Africa sub-sahariana, uno dei principali problemi è rappresentato dalla gestione della catena del freddo. Si tratta del principale ostacolo all’utilizzo di vaccini a mRna nei Paesi africani (ma anche latinoamericani), soprattutto nelle zone rurali, ma anche nei grandi e piccoli agglomerati urbani. A questo proposito è di buon auspicio quanto dichiarato da Medici senza frontiere (Msf), secondo cui vi sarebbero 120 aziende farmaceutiche, situate in Africa e America Latina, in grado di produrre rapidamente miliardi di dosi di vaccino a mRna assicurando l’immunizzazione globale contro il covid-19, necessaria per contrastare la proliferazioni di perniciose varianti, come omicron.

In un rapporto pubblicato da Msf in collaborazione con l’Imperial college di Londra si evince che potrebbero essere prodotte ogni anno 8 miliardi di dosi di vaccino in più, se i brevetti e le tecnologie di produzione contro il covid fossero temporaneamente liberalizzati, come proposto da India e Sud Africa all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) — il cosiddetto Trips waiver (moratoria sulla proprietà intellettuale) — appoggiata da oltre cento Paesi tra cui gli Stati Uniti e sostenuta fortemente dalla Santa Sede.

Grazie alla natura della tecnologia mRna, realizzata attraverso processi biochimici piuttosto che componenti biologici cellulari, i vaccini possono essere prodotti anche da aziende che non hanno precedenti esperienze nel campo vaccinale. Nel frattempo sarebbero già in cantiere formulazioni più termostabili di vaccini mRna che richiedono solo la refrigerazione standard.

Secondo lo studio svolto da Msf e dall’Imperial college sui requisiti per la produzione di vaccini a mRna, qualsiasi società farmaceutica che attualmente produce iniettabili sterili è in grado di soddisfare il criterio minimo per produrre un vaccino a mRna.

Da rilevare che i vaccini a mRna che oggi vanno per la maggiore sono Pfizer/BioNtech, e Moderna prodotti per la maggior parte nei Paesi occidentali, ad eccezione di una licenza di produzione completa che BioNtech ha sottoscritto con Fosun, in Cina. Ma attenzione, c’è anche un altro tipo di vaccino che ha fatto prodigi a Cuba. Nel Paese caraibico i decessi sono stati azzerati e i nuovi contagi sono minimali. E questo grazie a una campagna vaccinale in tempi record e all’efficacia di vaccini sviluppati nonostante l’embargo imposto dagli Stati Uniti, che impedisce l’approvvigionamento di materie prime, tecnologie e strumenti.

A Cuba la ricerca si è concentrata sui cosiddetti vaccini proteici che, a differenza di quelli come Pfizer e Moderna, si basano su una tecnologia già nota e largamente utilizzata anche in campo pediatrico. Peraltro, a Cuba, dove vi è una presenza significativa di afro-americani, sono già stati vaccinati i bambini dai due anni in su utilizzando proprio i vaccini proteici.

Il paradosso sta nel fatto che gli standard europei e statunitensi per la produzione farmaceutica rappresentano un ostacolo all’ingresso di vaccini come quelli cubani. Anche se poi, a pensarci bene, il coronavirus non conosce confini e sta facendo disastri un po’ ovunque. A questo proposito è bene segnalare la scelta di alcuni volontari italiani che, nell’ambito di un’iniziativa promossa dall’Agenzia per l’Interscambio culturale ed economico con Cuba (Aicec), si sono recati nel Paese caraibico per farsi somministrare il vaccino come richiamo (booster), per poi mettersi a disposizione della scienza medica italiana presso l’ospedale Amedeo di Savoia di Torino.

Sarebbe importante che i risultati di questo studio osservazionale fossero messi a disposizione della comunità scientifica internazionale e dunque anche dei Paesi africani. Anche perché oggi oltre il 95 per cento della popolazione cubana ha già fatto tre dosi con bassi costi e brevetto pubblico.

In considerazione di quanto sta accadendo nel mondo, Papa Francesco — l’abbiamo scritto tante volte su questo giornale — ha chiesto ripetutamente la sospensione temporanea del diritto di proprietà sui vaccini, invocando una collaborazione su scala planetaria nella ricerca e nella cura contro il covid-19.

Anche perché alle ragioni etiche si somma la necessità di neutralizzare il più possibile un virus in continua fase di mutazione partendo dal presupposto che, come dice il Papa, «siamo tutti sulla stessa barca e nessuno si salva da solo». L’emergenza vaccinale in Africa continua ad essere allarmante. Basti pensare al fatto, come detto, che è stato completato a livello continentale, a metà gennaio, dal 10,09 per cento della popolazione. Considerando che gli abitanti dell’Africa sono oltre 1 miliardo e 300 milioni, non sorprende affatto che il continente in questione rappresenti il vivaio d’ogni genere di varianti.

Com’è noto, accanto ai vaccini, la ricerca farmacologica ha tentato di individuare dei farmaci che potessero essere utilizzati per ridurre i tassi di mortalità e ospedalizzazione legati al virus. Sono stati perciò presi in considerazione alcuni medicinali già esistenti — ad esempio il Tocilizumab, immunosoppressore prodotto da Roche e già usato per alcune forme di artriti — e ne sono stati sviluppati di specifici, tra cui hanno avuto una particolare rilevanza quelli di Pfizer e Merck. Purtroppo, come già avvenuto per i vaccini, anche nel caso di questi farmaci «salvavita», l’Unione europea sembra rifiutare l’ipotesi di una sospensione dei Trips, senza peraltro offrire alcuna soluzione alternativa a paesi in sofferenza come quelli africani. È quanto denuncia Corporate Europe Observatory (Ceo), organizzazione no-profit che è impegnata nella raccolta e nella documentazione delle azioni e degli eventuali effetti del lobbismo aziendale delle multinazionali sui processi decisionali all’interno dei principali organi comunitari europei, che accusa Bruxelles di non prendere assolutamente in considerazione la sospensione dei brevetti e la condivisione di tecnologie e know-how. Se a tutto questo aggiungiamo lo scandalo legato all’invio in Africa e in altri Paesi svantaggiati di vaccini scaduti (come già denunciato da questo giornale), la delusione è cocente. E dire che sono molti i politici europei che sostengono la necessità di aiutare gli africani a casa loro.

Purtroppo, ancora una volta, tra i bei proclami e la realtà drammatica di tutti i giorni, c’è un abisso, quello delle diseguaglianze.

di Giulio Albanese