Dalle stelle alle stalle. È un comune modo di dire che sottolinea il precipitare di una situazione dall’eccellenza al degrado, una scena che prevede un passaggio, una trasformazione che ha l’aspro sapore dell’umiliazione. Proviamo a declinarlo al singolare, dalla stella alla stalla ed ecco che la scena cambia leggermente e assomiglia in modo impressionante alla scena della notte dell’Epifania, quando i Magi arrivano a Betlemme seguendo il passaggio della stella cometa. Anche qui in effetti c’è questo passaggio brusco, questo movimento dall’alto verso il basso. I Magi, persone probabilmente ricche e potenti, comunque “altolocate”, si trovano mischiate insieme ai poveri e ai pastori e mentre prima contemplavano il cielo ora si muovono ad un livello anche al di sotto della terra, in una grotta, un antro scavato nella roccia, sporco, freddo e umido. Non solo si muovono fin lì, ma appena giunti, per adorare il bambino si prostrano, cioè s’inginocchiano e si chinano a terra.
«Sembra una contraddizione, questo» ha osservato ieri il Papa durante la recita dell’Angelus «Sorprende un gesto tanto umile compiuto da uomini così illustri. Prostrarsi davanti a un’autorità che si presentava con i segni della potenza e della gloria era cosa abituale al tempo. E anche oggi non sarebbe strano. Ma davanti al Bambino di Betlemme non è semplice. Non è facile adorare questo Dio, la cui divinità rimane nascosta e non appare trionfante. Vuol dire accogliere la grandezza di Dio, che si manifesta nella piccolezza: questo è il messaggio. I magi si abbassano di fronte all’inaudita logica di Dio, accolgono il Signore non come lo immaginavano — grande, così —, ma così com’è, il Signore è piccolo, e povero. La loro prostrazione è il segno di chi mette da parte le proprie idee e fa spazio a Dio. Ci vuole umiltà per fare questo».
Questa è forse la parola-chiave: umiltà, che ha a che fare proprio con l’humus, la terra. Dalle stelle alla stalla è anche lo stesso cammino di quel bambino per cui i Magi e i pastori si sono messi in moto. Quel bambino è il «figlio dell’Altissimo» come era stato annunciato dall’angelo Gabriele a Maria, e ora è in un luogo bassissimo. Anche qui si sente l’aspro sapore dell’umiliazione ma si scopre che quel sapore può diventare dolce. Perché racchiude misteriosamente un tesoro nascosto, un seme di speranza. Lo dice bene san Paolo nell’inno cristologico della lettera ai Filippesi in cui parla di Gesù «il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2, 6-9).
Dio umilia se stesso. E lo fa da quel primo momento fino all’ultimo, quando in una scena molto simile a quella di Betlemme, ancora una volta sarà tra le braccia della madre che lo deporrà in un’altra grotta, il sepolcro, scavata nella roccia. Il disegno di Dio, la sua “inaudita logica”, la piena condivisione dell’esistenza umana, si è compiuta. All’angelus del 2 gennaio il Papa aveva già sottolineato questo amore totale e totalmente gratuito del «Verbo che si fa carne per condividere la nostra vita. Gesù è il Buon Pastore che viene a cercarci lì dove noi siamo: nei nostri problemi, nella nostra miseria. Lì viene Lui», e questo anche se noi «spesso ci teniamo a distanza da Dio perché pensiamo di non essere degni di Lui […] Pensa alla stalla di Betlemme. Gesù è nato lì, in quella povertà, per dirti che non teme certo di visitare il tuo cuore, di abitare una vita trasandata. È questa la parola: abitare. Abitare è il verbo che usa oggi il Vangelo per significare questa realtà: esprime una condivisione totale, una grande intimità».
Quel bambino è sceso dalle stelle, come dice la famosa canzone natalizia, per abitare nelle nostre stalle; a noi il compito di accoglierlo, anzi di “invitarlo” come sottolinea il Papa: «Invitiamolo ufficialmente nella nostra vita, soprattutto nelle zone oscure [...] le nostre “stalle interiori”: ognuno di noi ne ha. E raccontiamogli senza paura anche i problemi sociali, i problemi ecclesiali del nostro tempo; i problemi personali, anche i più brutti: Dio ama abitare nella nostra stalla».
di Andrea Monda