· Città del Vaticano ·

DONNE CHIESA MONDO

Reportage
La processione notturna oggi sospesa a causa della pandemia

Al Divino Amore
il cammino dei romani

 Al Divino Amore il cammino dei romani  DCM-003
05 marzo 2022

Ogni sabato notte a Roma, nei mesi che vanno da Pasqua a ottobre, c’è un luogo dove si riunisce un gruppo di fedeli. Arrivano alla spicciolata in piazza di Porta Capena, fino a diventare centinaia. Da una parte si intravede il palazzo della Fao, con la sua aria razionalista; dall’altra il circo Massimo, avvertito nel buio come un addensarsi dell’oscurità, sormontato dal Palatino. È da qui che a mezzanotte, fiaccole alla mano, inizia il pellegrinaggio a cui i romani sono più affezionati, quello che dal cuore della città eterna porta al santuario del Divino Amore.

Il viaggio verso il Divino Amore inizia nel centro e termina in periferia. Sono 15 più o meno i chilometri che separano la città dal santuario. Si attraversano l’Appia Antica e via Ardeatina, costeggiando le catacombe di San Callisto e di San Sebastiano. Si passa davanti la chiesa del Domine Quo Vadis, dove Pietro incontrò Gesù, e si prega. All’altezza delle fosse Ardeatine ci si raccoglie e si ricordano le vittime della furia nazista. È un pellegrinaggio nella storia.

Oggi è sospeso a causa del Covid: «Ma riprenderà presto, non appena la pandemia ci darà tregua, e sarà ancora più partecipato» ci racconta suor Paola, che appartiene alla confraternita delle Figlie del Divino Amore e quel tragitto lo ha percorso centinaia di volte. La cosa che ha sempre colpito suor Paola è la partecipazione, che lei definisce “trasversale”, composta da persone di ogni estrazione e sensibilità. Come Chiara Dimuccio, una donna di 39 anni che si definisce credente ma «outsider del cattolicesimo». «La prima volta che ho fatto il pellegrinaggio era un sabato di aprile, una magica serata di fine primavera, quando a Roma si respira davvero eternità» ci racconta. «Si cammina piano ed è bello farlo al buio, insieme ad altre persone che pregano. È diverso da camminare da soli, perché si è parte di una esperienza collettiva che infonde forza». Il pellegrinaggio si svolge di notte e di solito, quando albeggia, ecco il santuario profilarsi dall’Ardeatina, una metafora della luce che illumina la notte dell’anima. Sono le 5 del mattino e i pellegrini possono assistere alla prima messa della giornata.

La storia del santuario nato ai confini della città inizia a primavera, nel 1740, con il racconto di un miracolo. Un pellegrino diretto a Roma si smarrisce nella campagna che circonda la città, nei pressi di Castel di Leva. Proprio mentre costeggia una torre che reca in cima un affresco della Vergine con il Bambino, il viandante viene circondato da una muta di cani selvatici. Le bestie avanzano minacciose e l’uomo, sentendosi ormai perduto, alza gli occhi, incrociando lo sguardo della Madonna affrescata e invocando il suo aiuto. È in quel momento che i cani si ammansiscono lasciando scappare l’incredulo pellegrino.

L’episodio miracoloso passa di bocca in bocca, attraversa le campagna, arriva sino in città, e quell’affresco diventa meta di venerazione e richiesta di grazie, soprattutto per i pastori e gli agricoltori dell’agro romano. La devozione popolare è molto forte e così, negli anni 40 del 1700, viene edificata, proprio nei pressi di Castel di Leva, la chiesa che costituisce ancora oggi il nucleo originario del santuario. È in questa chiesa che il lunedì di Pasqua del 1745 viene trasferito e posto sopra l’altare l’affresco della Vergine con il Bambino, sovrastata dalla colomba dello Spirito Santo, che è il Divino Amore.

Oggi il perimetro del santuario si è esteso. Alla piccola chiesa storica si è affiancata quella moderna, costruita nel 1999, una struttura in cemento e vetro colorato che può ospitare migliaia di fedeli. La pandemia, con gli obblighi del distanziamento, ha ovviamente colpito anche il Santuario. «Ma nei periodi più duri sono state organizzate le messe all’aperto - spiega suor Paola - che sono state un successo». Passeggiando per il santuario colpiscono gli ex voto; sono migliaia e tutti raccontano di suppliche, grazie ricevute e miracoli. «Molte sono le persone sofferenti che si affidano alla Madonna - dice suor Paola - l’elemento di richiesta è forte, perché a una mamma si chiede tutto».

La relazione tra i romani e la Madonna del Divino Amore ha la sua svolta durante la seconda guerra mondiale. Nel settembre del 1943 la zona del santuario viene bombardata e si decide di spostare l’icona della Madonna in città, perché sia al sicuro. L’affresco viene prima portato nella chiesa di San Lorenzo in Lucina e poi, data l’enorme affluenza di fedeli, nella più ampia Sant’Ignazio di Loyola a Campo Marzio. Sono questi i giorni in cui papa Pio xii invita i romani ad affidarsi proprio alla Madonna del Divino Amore affinché la città venga risparmiata dalla distruzione della guerra. Tra il 4 e il 5 giugno i nazisti abbandonano Roma, scegliendo di non rendere la città un campo di battaglia. La capitale viene così risparmiata dai risvolti più cruenti del conflitto. L’11 giugno papa Pio xii celebra una messa di ringraziamento nella chiesa di Sant’Ignazio: alla Madonna del Divino Amore viene dato il titolo di Salvatrice dell’Urbe.

Negli anni del dopoguerra il rettore del Divino Amore è don Umberto Terenzi, una figura cruciale per il santuario. In questo periodo, grazie al suo attivismo, vengono fondati il seminario degli oblati del Divino Amore e la Congregazione delle figlie della Madonna del Divino Amore. Il santuario rinasce insieme al resto del Paese, ci spiega Emma Fattorini, storica dell’Università la Sapienza: «Dal punto di vista storico e sociale, il Divino Amore è un simbolo della ricostruzione, dell’energia del dopoguerra». In questo stesso periodo, il pellegrinaggio notturno si struttura nei termini che conosciamo oggi. Coinvolgendo, oltretutto, sempre più donne: «In tutti i culti mariani nel dopoguerra è molto forte la presenza femminile» continua Emma Fattorini. Il pellegrinaggio diventa l’occasione per uscire, avere relazioni sociali e conquistare spazi di libertà: «Una sorta di nuova socialità che attenua il tradizionale isolamento femminile». Secondo Fattorini, i culti mariani nel dopoguerra assumono un valore ambivalente: da una parte trasmettono valori conservatori e funzionano anche come vettore di propaganda, soprattutto in chiave anticomunista; d’altro canto, però, alimentano un protagonismo femminile. Sono questi gli anni in cui aumenta, in ambito cattolico, il numero delle catechiste o delle maestre, e cresce così l’impatto delle donne nella trasmissione dei saperi.

Proprio negli anni del dopoguerra, entra al Divino Amore un giovanissimo seminarista di Altamura, Michele Pepe, che diventa prima sagrestano, poi sacerdote e infine collaboratore del rettore don Umberto Terenzi. Don Pepe oggi ha 82 anni ed è tornato al Divino Amore, dopo aver trascorso 40 anni da parroco in Puglia. Quando, da ragazzo, viveva al Santuario, ogni sabato notte accompagnava don Umberto a Porta Capena per aprire il pellegrinaggio. La prima cosa che facevano era distribuire le candele; poi si cantava, iniziando con l’inno della Madonna del Divino Amore. «Noi sacerdoti stavamo in fondo al corteo e confessavamo dall’inizio alla fine della processione. Oggi rispetto al passato è cambiata la qualità delle strade, molti portano le torce, e di sicuro non si incontrano più carri e cavalli. Ma una cosa è identica ad allora: al pellegrinaggio ci sono tutti, c’è il popolo. Dai più fedeli ai peccatori, dai credenti ai curiosi. Da chi chiede una grazia a chi vuole solo dire grazie».

Nonostante il pellegrinaggio sia sempre molto animato, con preghiere scandite ad alta voce o diffuse col megafono, esiste lungo tutto il tragitto una dimensione di quiete, preservata dalla notte. «La sensazione che si prova è quella dell’anonimato» ci dice Silvana Cecconi, una fedele che di processioni ne ha fatte tante. «La notte ti ripara, diluisce l’identità di ciascuno». Il viaggio al buio consegna a tutti un’intimità e un senso di comunità nuovo: «In molti casi mi sono trovata ad ascoltare persone con problemi familiari anche molto intimi. È come se di notte ci si senta accolti. Tutto ciò di cui fai fatica a parlare di giorno, lo consegni al cammino notturno». Per Silvana: «Le preghiere servono, ma fanno da sfondo a questo speciale stato psicologico. È una specie di catarsi».

La notte, dunque. Ecco l’elemento che più di ogni altro caratterizza questo pellegrinaggio che dal cuore di Roma, dal cuore del cattolicesimo, porta verso l’alba della periferia. «Sì, la notte è la caratteristica principale del Divino Amore» conferma Chiara Dimuccio, la prima pellegrina che abbiamo interpellato per questo racconto. «In particolare quella romana, che è una notte speciale. Roma è spesso descritta, non sempre a torto, anche come una città cinica, disincantata. Allora, per stupirsi, consiglio di fare il pellegrinaggio. Vedere queste persone così diverse che si incontrano, pregano, camminano una notte intera per raggiungere un santuario fuori città. Bisogna vedere e stupirsi. Ne vale la pena».

di Carmen Vogani e Gregorio Romeo