· Città del Vaticano ·

La preghiera ecumenica con i migranti nella chiesa di Santa Croce a Nicosia

Il filo spinato dell’odio
davanti a chi chiede libertà
e pane

 Il filo spinato dell’odio davanti a chi chiede libertà e pane  QUO-277
04 dicembre 2021

Ieri pomeriggio, venerdì 3 dicembre, Papa Francesco ha guidato una preghiera ecumenica con i migranti nella chiesa di Santa Croce a Nicosia. Dopo il saluto rivoltogli dal patriarca di Gerusalemme dei latini Pierbattista Pizzaballa, il Pontefice ha ascoltato le testimonianze di una volontaria della Caritas cipriota e di quattro giovani migranti, che hanno ispirato la sua riflessione. Eccone il testo.

Cari fratelli e sorelle!

È una grande gioia trovarmi qui con voi e concludere la mia visita a Cipro con questo incontro di preghiera. Ringrazio i Patriarchi Pizzaballa e Béchara Raï, come pure la Signora Elisabeth della Caritas. Saluto con affetto e riconoscenza i Rappresentanti delle diverse confessioni cristiane presenti a Cipro.

Un grande “grazie” dal cuore desidero dire a voi, giovani migranti, che avete dato le vostre testimonianze. Le avevo ricevute in anticipo circa un mese fa e mi avevano colpito tanto, e anche oggi mi hanno commosso, un’altra volta, a sentirle. Ma non è solo emozione, è molto di più: è la commozione che viene dalla bellezza della verità. Come quella di Gesù quando esclamò: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti, e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11, 25). Anch’io rendo lode al Padre celeste perché questo accade oggi, qui — come pure in tutto il mondo —: ai piccoli Dio rivela il suo Regno, Regno di amore, di giustizia e di pace.

Dopo aver ascoltato voi, comprendiamo meglio tutta la forza profetica della Parola di Dio che, attraverso l’apostolo Paolo, dice: «Voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi, e familiari di Dio» (Ef 2, 19). Parole scritte ai cristiani di Efeso — non lontano da qui! —; molto distanti nel tempo, ma parole vicinissime, più attuali che mai, come scritte oggi per noi: “Voi non siete stranieri, ma concittadini”. Questa è la profezia della Chiesa: una comunità che — con tutti i limiti umani — incarna il sogno di Dio. Perché anche Dio sogna, come te, Mariamie, che vieni dalla Repubblica Democratica del Congo e ti sei definita “piena di sogni”. Come te Dio sogna un mondo di pace, in cui i suoi figli vivono come fratelli e sorelle. Dio vuole questo, Dio sogna questo. Siamo noi a non volerlo.

La vostra presenza, fratelli e sorelle migranti, è molto significativa per questa celebrazione. Le vostre testimonianze sono come uno “specchio” per noi, comunità cristiane. Quando tu, Thamara, che vieni dallo Sri Lanka, dici: “Spesso mi viene chiesto chi sono”: la brutalità della migrazione mette in gioco la propria identità. “Ma io sono questo? Non lo so... Dove sono le mie radici? Chi sono?”. E quando dici questo, ci ricordi che anche a noi a volte viene posta questa domanda: “Chi sei tu?”. E purtroppo spesso si intende dire: “Da che parte stai? A quale gruppo appartieni?”. Ma come ci hai detto tu, non siamo numeri, non siamo individui da catalogare; siamo “fratelli”, “amici”, “credenti”, “prossimi” gli uni degli altri. Ma quando gli interessi di gruppo o gli interessi politici, anche delle Nazioni, spingono, tanti di noi si trovano messi da parte, senza volerlo, schiavi. Perché l’interesse sempre schiavizza, sempre crea schiavi. L’amore, che è largo, che è contrario all’odio, l’amore ci fa liberi.

Quando tu, Maccolins, che vieni dal Camerun, dici che nel corso della tua vita sei stato “ferito dall’odio”, tu stai parlando di questo, di queste ferite degli interessi; e ci ricordi che l’odio ha inquinato anche le nostre relazioni tra cristiani. E questo, come hai detto tu, lascia il segno, un segno profondo, che dura a lungo. È un veleno. Sì, l’hai fatto sentire tu, con la tua passione: l’odio è un veleno da cui è difficile disintossicarsi. E l’odio è una mentalità distorta, che invece di farci riconoscere fratelli, ci fa vedere come avversari, come rivali, quando non come oggetti da vendere o da sfruttare.

Quando tu, Rozh, che vieni dall’Iraq, dici che sei “una persona in viaggio”, ci ricordi che anche noi siamo comunità in viaggio, siamo in cammino dal conflitto alla comunione. Su questa strada, che è lunga ed è fatta di salite e discese, non devono farci paura le differenze tra noi, ma piuttosto sì, devono farci paura le nostre chiusure, e i nostri pregiudizi, che ci impediscono di incontrarci veramente e di camminare insieme. Le chiusure e i pregiudizi ricostruiscono tra noi quel muro di separazione che Cristo ha abbattuto, cioè l’inimicizia (cfr. Ef 2, 14). E allora il nostro viaggio verso la piena unità può fare dei passi avanti nella misura in cui, tutti insieme, teniamo lo sguardo fisso su Gesù, su di Lui, che è «la nostra pace» (ibid.), che è la «pietra d’angolo» (v. 20). E Lui, il Signore Gesù, ci viene incontro con il volto del fratello emarginato e scartato. Con il volto del migrante disprezzato, respinto, ingabbiato, sfruttato... Ma anche — come hai detto tu — del migrante che è in viaggio verso qualcosa, verso una speranza, verso una convivenza più umana.

E così Dio ci parla attraverso i vostri sogni. Il pericolo è che tante volte non lasciamo entrare i sogni, in noi, e preferiamo dormire e non sognare. È tanto facile guardare da un’altra parte. E in questo mondo ci siamo abituati a quella cultura dell’indifferenza, a quella cultura del guardare da un’altra parte, e addormentarci così, tranquilli. Ma per questa strada mai si può sognare. È duro. Dio parla attraverso i vostri sogni. Dio non parla attraverso le persone che non possono sognare niente, perché hanno tutto o perché il loro cuore si è indurito. Dio chiama anche noi a non rassegnarci a un mondo diviso, a non rassegnarci a comunità cristiane divise, ma a camminare nella storia attratti dal sogno di Dio, cioè un’umanità senza muri di separazione, liberata dall’inimicizia, senza più stranieri ma solo concittadini, come ci diceva Paolo nel brano che ho citato. Diversi, certo, e fieri delle nostre peculiarità; fieri di essere diversi, di queste peculiarità che sono dono di Dio. Diversi, fieri di esserlo, ma sempre riconciliati, sempre fratelli.

Possa quest’Isola, segnata da una dolorosa divisione — sto guardando il muro, lì [attraverso il portale aperto della chiesa] — possa diventare con la grazia di Dio laboratorio di fraternità. Io ringrazio tutti coloro che lavorano per questo. Pensare che quest’Isola è generosa, ma non può fare tutto, perché il numero di gente che arriva è superiore alle sue possibilità di inserire, di integrare, di accompagnare, di promuovere. La sua vicinanza geografica facilita..., ma non è facile. Dobbiamo capire i limiti a cui i governanti di quest’Isola sono legati. Ma sempre c’è in questa Isola, e l’ho visto nei responsabili che ho visitato, [l’impegno] di diventare, con la grazia di Dio, laboratorio di fraternità. E lo potrà essere a due condizioni. La prima è l’effettivo riconoscimento della dignità di ogni persona umana (cfr. Enc. Fratelli tutti, 8). La nostra dignità non si vende, non si affitta, non va perduta. La fronte alta: io sono degno figlio di Dio. L’effettivo riconoscimento della dignità di ogni persona umana: questo è il fondamento etico, un fondamento universale che è anche al centro della dottrina sociale cristiana. La seconda condizione è l’apertura fiduciosa a Dio Padre di tutti; e questo è il “lievito” che siamo chiamati a portare come credenti (cfr. ibid., 272).

A queste condizioni è possibile che il sogno si traduca in un viaggio quotidiano, fatto di passi concreti dal conflitto alla comunione, dall’odio all’amore, dalla fuga all’incontro. Un cammino paziente che, giorno dopo giorno, ci fa entrare nella terra che Dio ha preparato per noi, la terra dove, se ti domandano: “Chi sei?”, puoi rispondere a viso aperto: “Guarda, sono tuo fratello: non mi conosci?”. E andare così, lentamente.

Ascoltando voi, guardandovi in faccia, la memoria va oltre, va alle sofferenze. Voi siete arrivati qui: ma quanti dei vostri fratelli e delle vostre sorelle sono rimasti per strada? Quanti disperati iniziano il cammino in condizioni molto difficili, anche precarie, e non sono potuti arrivare? Possiamo parlare di questo mare che è diventato un grande cimitero. Guardando voi, guardo le sofferenze del cammino, tanti che sono stati rapiti, venduti, sfruttati..., ancora sono in cammino, non sappiamo dove. È la storia di una schiavitù, una schiavitù universale. Noi guardiamo cosa succede, e il peggio è che ci stiamo abituando a questo. “Ah, sì, oggi è affondato un barcone, lì… tanti dispersi…”. Ma guarda che questo abituarsi è una malattia grave, è una malattia molto grave e non c’è antibiotico per questa malattia! Dobbiamo andare contro questo vizio dell’abituarsi a leggere queste tragedie nei giornali o sentirli in altri media. Guardando voi, penso a tanti che sono dovuti tornare indietro perché li hanno respinti e sono finiti nei lager, veri lager, dove le donne sono vendute, gli uomini torturati, schiavizzati... Noi ci lamentiamo quando leggiamo le storie dei lager del secolo scorso, quelli dei nazisti, quelli di Stalin, ci lamentiamo quando vediamo questo e diciamo: “ma come mai è successo questo?”. Fratelli e sorelle: sta succedendo oggi, nelle coste vicine! Posti di schiavitù. Ho guardato alcune testimonianze filmate di questo: posti di tortura, di vendita di gente. Questo lo dico perché è responsabilità mia aiutare ad aprire gli occhi. La migrazione forzata non è un’abitudine quasi turistica: per favore! E il peccato che abbiamo dentro ci spinge a pensarla così: “Mah, povera gente, povera gente!”. E con quel “povera gente” cancelliamo tutto. È la guerra di questo momento, è la sofferenza di fratelli e sorelle che noi non possiamo tacere. Coloro che hanno dato tutto quello che avevano per salire su un barcone, di notte, e poi... senza sapere se arriveranno... E poi, tanti respinti per finire nei lager, veri posti di confinamento e di tortura e di schiavitù.

Questa è la storia di questa civiltà sviluppata, che noi chiamiamo Occidente. E poi — scusatemi, ma vorrei dire quello che ho nel cuore, almeno per pregare l’uno per l’altro e fare qualcosa — poi, i fili spinati. Uno lo vedo qui: questa è una guerra di odio che divide un Paese. Ma i fili spinati, in altre parti dove ci sono, si mettono per non lasciare entrare il rifugiato, quello che viene a chiedere libertà, pane, aiuto, fratellanza, gioia, che sta fuggendo dall’odio e si trova davanti a un odio che si chiama filo spinato. Che il Signore risvegli la coscienza di tutti noi davanti a queste cose.

E scusatemi se ho detto le cose come sono, ma non possiamo tacere e guardare dall’altra parte, in questa cultura dell’indifferenza.

Che il Signore benedica tutti voi! Grazie.