· Città del Vaticano ·

Il saluto introduttivo del Pontefice alla mostra «Volti al futuro» organizzata dal Centro Astalli

Segni di speranza
in un deserto di umanità

 Segni di speranza in  un deserto di umanità  QUO-261
16 novembre 2021

Pubblichiamo il testo del saluto introduttivo che Papa Francesco ha inviato in occasione dell’odierna inaugurazione della mostra fotografica allestita dal Centro Astalli nella chiesa romana di Sant’Andrea al Quirinale.

Vaticano, 7 novembre 2021

Carissimi Duclair, Nathaly, Haider, a voi e a tutte le persone rifugiate che in questi ultimi 40 anni sono arrivate in Italia e sono state accompagnate dal Centro Astalli giungano queste parole di affetto e vicinanza.

Le vostre sono storie di uomini e donne che hanno condiviso un pezzo di strada con il Centro Astalli, il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati in Italia, a volte breve a volte molto lungo, trovando nella relazione e nella conoscenza reciproca il senso e la forza di impegnarsi nel cammino verso la libertà.

Quaranta, nella Bibbia, è un numero significativo che ha molti rimandi, ma certamente pensando a voi mi viene in mente il popolo di Israele che per 40 anni cammina nel deserto, prima di entrare nella terra della promessa. Liberato dalla schiavitù ha impiegato il tempo di una generazione per costituirsi come popolo, con non poche difficoltà. Anche gli ultimi quarant’anni della storia dell’umanità non sono stati un progredire lineare: il numero delle persone costrette a fuggire dalla propria terra è in continua crescita.

Molti tra voi sono dovuti scappare da condizioni di vita assimilabili a quelle della schiavitù dove alla base c’è una concezione della persona umana deprivata della propria dignità e trattata come un oggetto.

Conoscete quanto può essere terribile e spregevole la guerra, sapete cosa significhi vivere senza libertà e diritti, assistete inermi mentre la vostra terra inaridisce, la vostra acqua si inquina e non avete altra possibilità se non quella di mettervi in cammino verso un luogo sicuro in cui realizzare sogni, aspirazioni, in cui mettere a frutto talenti e capacità.

Purtroppo il mettersi in cammino non ha costituito in molti casi una vera liberazione, troppo spesso vi scontrate con un deserto di umanità, con un’indifferenza che si è fatta globale e che inaridisce le relazioni tra gli uomini.

La storia in questi ultimi decenni ha dato segni di un ritorno al passato: i conflitti si riaccendono in diverse parti del mondo (e le vostre provenienze ce lo raccontano molto bene), nazionalismi e populismi si riaffacciano a diverse latitudini, la costruzione di muri e il ritorno dei migranti in luoghi non sicuri appaiono come l’unica soluzione di cui i governi siano capaci per gestire la mobilità umana.

In questi quarant’anni e in questo deserto, tuttavia ci sono stati tanti segni di speranza che ci permettono di poter sognare di camminare insieme come un popolo nuovo “verso un noi sempre più grande”.

Voi, innanzitutto, cari rifugiati, siete segno e volto di questa speranza. C’è in voi l’anelito a una vita piena e felice che vi sostiene nell’affrontare con coraggio circostanze concrete e difficoltà che a molti possono sembrare insormontabili.

Quando vi viene data la possibilità, ci offrite parole indispensabili per conoscere, comprendere, non ripetere gli errori del passato, cambiare il presente e costruire un futuro di pace.

Sono segno di questa stessa speranza anche le storie di tante donne e uomini di buona volontà che in questi quarant’anni al Centro Astalli hanno donato tempo ed energie: migliaia di persone diversissime tra loro ma uniti dal desiderio di un mondo più giusto in cui dignità e diritti siano veramente di tutti. Come ho ricordato nella Fratelli Tutti: «La storia del buon samaritano si ripete [...] Gesù non presenta vie alternative [...] Egli ha fiducia nella parte migliore dello spirito umano e con la parabola la incoraggia affinché aderisca all’amore, recuperi il sofferente e costruisca una società degna di questo nome» (n. 71).

Questo ci fa guardare con fiducia al futuro sognando di poter vivere insieme come popolo libero perché solidale, che sa riscoprire la dimensione comunitaria della libertà, come popolo unito, non uniforme, variegato nella ricchezza delle differenti culture. Ora è giunto anche per noi il tempo di vivere nella terra promessa, terra della solidarietà che ci pone gli uni al servizio degli altri, è il tempo di una casa comune fatta di popoli fratelli.

I volti di donne e uomini che si susseguono in questa mostra, che rimandano a nomi e storie precise di persone accolte al Centro Astalli e che fanno intravedere i contorni sfumati di alcuni luoghi della città di Roma, dicono il desiderio di essere parte attiva delle città come luogo di vita condivisa; protagonisti con piena cittadinanza insieme a tanti altri uomini e donne nella costruzione di comunità solidali.

L’augurio sincero in questo anniversario allora è quello che si realizzi veramente la “cultura dell’incontro” e come popolo ci appassioni il volerci incontrare, il cercare punti di contatto, il gettare ponti, il progettare qualcosa che coinvolga tutti. Questo diventi un’aspirazione e uno stile di vita come ricordavo nella Fratelli Tutti (cfr. n 216). Questa sarà la terra promessa per tutti.

Vegli su di voi, sul Centro Astalli e su tutto il Jesuit Refugee Service, padre Arrupe.

FRANCESCO

 

La seconda possibilità di Joy


Sono state le parole di Papa Francesco, lette dal vicepresidente del Centro Astalli, padre Alessandro Manaresi, nella chiesa di Sant’Andrea al Quirinale, a tagliare idealmente il nastro dell’esposizione  allestita per i quarant’anni di attività in Italia dell’opera del Servizio dei gesuiti per i rifugiati (Jrs).  «Non vogliamo celebrare il passato, ma  costruire il futuro con i rifugiati» realizzando «comunità aperte e solidali in cui i migranti vengano percepiti come una ricchezza, come un dono», ha detto il presidente del Centro Astalli padre Camillo Ripamonti, parlando alla presenza del presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti,  e dei cardinali Angelo De Donatis, vicario di Roma, e Michael Czerny, sotto segretario della Sezione migranti e rifugiati del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale. «Davanti a una storia che sembra tornare indietro, di fronte a tanto dolore, a tante ferite, alla consapevolezza che la pandemia ha creato rispetto a questo mondo malato, non possiamo rimanere indifferenti», ha sottolineato quest’ultimo. Ricordando i troppi «migranti respinti alla frontiera del Messico, i viaggi della speranza nel Mar Mediterraneo, gli esodi delle popolazioni sfollate interne dell’Africa e le persecuzioni delle minoranze etniche dell’Asia e dell’America Latina», il porporato gesuita ha esortato a «progettare e camminare insieme». Però, ha avvertito, «per farlo dobbiamo avvicinarci veramente a loro come persone, conoscere la loro vita e acquisire il loro sguardo sulla vita».

Particolarmente toccanti le testimonianze di Joy Ehikioya, nigeriana con la pelle chiara perché albina, che diciannovenne finì «in mano a spregevoli trafficanti di esseri umani. Ma io — ha spiegato — non sono una vittima, sono una sopravvissuta. Non sono una persona a cui è capitata una disgrazia che purtroppo tanti fratelli e sorelle non possono raccontare, perché giacciono muti e dimenticati sui fondali-cimitero del Mediterraneo, davanti alle coste di un’Europa che troppo spesso si volta dall’altra parte. Mi è stata data una seconda possibilità a Trento incontrando il Centro Astalli». Così come è stato per Cedric, attore della Repubblica Democratica del Congo. «Oggi sono qui per chiedervi di guardarci negli occhi — ha detto — e provare a vedere il mondo attraverso i nostri sguardi. E a tutte le persone in cerca di pace e diritti, auguro di trovare una porta aperta, quella giusta attraverso cui intravedere un nuovo domani». Infine ha preso la parola l’afghano Jawad Haidari: «Siamo di etnia hazara, minoranza perseguitata» dai talebani, e poiché «i nostri parenti hanno lavorato con la cooperazione italiana, ora sono nascosti, in grave pericolo; alcune donne sono sole con figli minori, chiuse in casa. Altri sono riusciti a raggiungere il Pakistan, ma in clandestinità. La pandemia rende tutto ancora più difficile. Le nostre famiglie afghane sono numerose. Sappiamo che questo può essere un problema» per trovare loro una sistemazione «ma non possiamo lasciare nessuno indietro», è stato il suo appello.