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DONNE CHIESA MONDO

L’intervento

Una ferita nella Chiesa
che richiede parresia

 Una ferita nella Chiesa che richiede parresia  DCM-012
30 dicembre 2021

La realtà degli abusi sulle donne consacrate


L’abuso che coinvolge donne consacrate è una realtà più diffusa di quanto si possa immaginare attorno alla quale c’è ancora molta indifferenza e omertà. Oscurata e silenziata proprio all’interno del diversificato tessuto ecclesiale. Una realtà in parte ancora sconosciuta nelle sue molte sfaccettature: le dinamiche che si intrecciano, le cause scatenanti, gli effetti di sofferenza che si manifestano nel corso del tempo nella vita delle persone ferite. Le donne che sono vittima di queste forme di abuso lottano per molto tempo con nuclei di dolore e sofferenze profonde: la perdita dell’orizzonte vitale, il senso di smarrimento che colpisce anche il vissuto della fede, la fatica nella ricostruzione della dignità della propria persona e del senso della propria vita. È un crimine circa il quale parole come tutela, prevenzione, formazione e giustizia sono ancora molto, troppo lontane. Scrivere qualcosa su questa realtà chiede moltissima delicatezza e rispetto affinché non venga violata ancora una volta l’intimità delle persone, non è infatti la curiosità che ci deve guidare, bensì il desiderio di un ascolto vero che ci impegni in un cambiamento e in una conversione.

Parliamo di una forma di abuso “familiare” che richiede un’osservazione sistemica per essere compreso.

Abuso “familiare”: perché avviene frequentemente all’interno della stretta rete di relazioni intra-ecclesiali: prete e suora, formatrice, superiora e giovane in formazione. Risponde quindi alle leggi dell’omertà degli abusi incestuosi intra-familiari: si tace, nascondendo, negando e colludendo così con il colpevole. Talvolta si giunge a difendere l’autore dell’abuso per convenienze economiche, di fama della congregazione stessa o di quella dell’abusatore quando è molto influente nell’orizzonte ecclesiale. Inoltre, nel caso degli abusi sulle donne consacrate la cultura che mescola autorità, obbedienza e silenzio è molto forte e rischia di favorire questo stesso sistema difensivo.

Osservazione sistemica: chi abusa riesce ad attuare il crimine e a rimanere spesso impunito proprio per il sistema di copertura all’interno del quale opera indisturbato: spesso si crea una forte complicità alimentata da legami esclusivi con superiori ecclesiastici disponibili anche a testimoniare la buona fama e la condotta integerrima di colui che ha agito una condotta abusante. Il sistema all’interno del quale accade ogni forma di abuso, se osservato con attenzione, è marcatamente patologico, capace di incorporare in maniera simbiotica e invischiata chi si adegua, ma anche di isolare ed espellere chi, mantenendo miracolosamente una sua autonomia nella lettura della realtà e quindi di giudizio, esprime osservazioni critiche e manifesta atteggiamenti e scelte non conformi alla maggioranza. Nello stesso tempo è un sistema estremamente resistente ad ogni confronto esterno.

Due elementi che caratterizzano le comunità con alto potenziale di rischio di abuso: uso strumentale dei valori proclamati e lo stile di leadership nelle comunità.

Uso strumentale dei valori: in queste esperienze di vita fraterna è frequente l’uso strumentale dei valori intrinsecamente connessi con la scelta vocazionale: i voti – povertà, castità, obbedienza - la preghiera, il significato attribuito alla Parola di Dio, la celebrazione dei sacramenti, l’abitudine all’accompagnamento spirituale, le dinamiche intrinseche della e nella vita comunitaria, lo svolgimento del proprio servizio apostolico. Tutto ciò contribuisce a formare delle realtà all’interno delle quali relazioni di manipolazione, sfruttamento, dipendenza, spiritualizzazione vanno a creare il tessuto nel quale forme diverse di abusi possono trovare radice ed espressione. Purtroppo, in queste forme di vita, l’obbedienza, o piuttosto la sottomissione, è presentata in modo assoluto come una virtù fondamentale. La povertà è usata per giustificare forme di dipendenza eccessive e di controllo da parte delle superiore. La castità, non correttamente presentata nella formazione e nell’accompagnamento, può portare a chiusure anticipate, a forme di negazione dei bisogni emotivi e affettivi che ciascuno di noi vive, a censurare il vissuto sessuale in ogni sua espressione e contenuto, a integrare con fatica la propria identità sessuale.

Leadership patologiche, discernimento debole, reclutamento eccessivamente rapido: nelle comunità in cui le diverse forme di abuso di autorità favoriscono un contesto di manipolazione l’obbedienza - sottomissione è quasi assoluta, si vive secondo uno stile passivo riconosciuto proprio come virtù fondamentale. Questo porta lentamente, ma inesorabilmente, una trasformazione patologica del concetto di fedeltà al carisma che si trasforma in fedeltà ai gusti e alle preferenze di una particolare persona che a sua volta decide arbitrariamente chi può usufruire di possibilità formative, impegni apostolici più o meno gratificanti, responsabilità all’interno del gruppo eccetera. Quasi fosse un premio assegnato alle persone più docili, acritiche e, appunto, sottomesse. Questa forma di leadership gravemente manipolatoria, assoluta, totalizzante ha ricadute gravi sulla comunità poiché favorisce la regressione dei membri lasciando spazio a dinamiche di idealizzazione del leader e di asservimento alle sue volontà.

A questo riguardo è interessante, e dovrà essere riletto e studiato con maggiore attenzione, ciò che accade nelle comunità miste che vedono la presenza di laici, famiglie, consacrate, religiosi, preti, apparentemente poco gerarchiche, prive di confini precisi, con un notevole numero di comportamenti invischiati, guidate da personaggi “magnetici” ai quali viene attribuito e riconosciuto un ruolo assoluto e che spesso sono anche oggetto di forme di venerazione. Queste realtà di nuova fondazione rischiano di essere una sorta di chiesa parallela autosufficiente, autoreferenziale, nelle quali la formazione è praticamente assente o unicamente centrata sulla parola del fondatore che si fa spesso unico interprete anche della parola di Dio. Sono comunità all’interno delle quali si vive frequentemente una confusione tra foro esterno e foro interno, il discernimento è assente, la formazione debole e pilotata. Anzi, proprio il discernimento risulta più rispondente alla realtà di un reclutamento come risposta a rapide conversioni che portano la persona a idealizzare il leader, il sistema di vita e a vivere cambiamenti esistenziali tanto improvvisi e assoluti quanto poco rielaborati e radicati nella persona.

Tratti della storia familiare delle persone più vulnerabili

Con estremo rispetto possiamo raccogliere alcuni brevi tratti, presenti in modo trasversale, nella storia familiare delle persone più a rischio di essere individuate dai potenziali abusatori proprio perché più vulnerabili: una forma di “morale” religiosa severa, intransigente e integralista, forme di eccessiva espressione emotiva della fede, forme di ritualità un po’ magiche e molta spiritualizzazione della realtà, abitudine appresa in famiglia di idealizzazione della figura sacerdotale e comunque il riconoscimento di una superiorità della figura maschile nella gestione della vita, un’educazione rivolta a vivere tutti i valori con rigore e una disciplina alimentata da un senso del dovere assoluto. Bisogna però considerare con molta attenzione anche un altro dato: chi abusa sceglie le proprie vittime, difficilmente sbaglia! Nella realtà del reato compiuto verso donne consacrate, spesso vengono “scelte” giovani donne molto sensibili ai valori religiosi, con una particolare finezza nella ricerca spirituale, una profonda capacità di riflessione, ma con forme, spesso inconsce, di idealizzazione verso il ruolo e la persona del prete.

Cosa si attendono da noi le persone ferite dagli abusi? Quale stile deve avere il nostro ascolto?

Si attendono di essere riconosciute e accolte come persone, prima ancora che come – unicamente – vittime, di essere credute nel loro dolore, ascoltate con rispetto. Chi è stato ferito nella chiesa vuole avere il diritto di scegliere se rimanere nella chiesa o lasciarla. Si attendono giustizia: vogliono che sia detto con chiarezza chi ha fatto che cosa. Chi ha commesso l’abuso e chi è la vittima che lo ha subito. Si aspettano di essere soggetti del procedimento giudiziario e di non doverlo subire senza il giusto coinvolgimento. Dobbiamo essere consapevoli che quando una persona arriva chiedendo un ascolto ha già percorso una strada molto difficile e, spesso, sta ancora lottando con la vergogna e la colpa, con la paura che l’altro che l’ascolta non le creda. Va creato un clima di fiducia, di delicatezza e di rispetto, vanno assolutamente evitati il giudizio e il pregiudizio, atteggiamenti svalutanti, stili relazionali frettolosi, anche minime espressioni di disturbo, rabbia, fastidio, disgusto, per ciò che viene espresso perché sarebbe come reiterare l’abuso stesso. Dobbiamo vivere un ascolto compassionevole nel suo vero significato.

Abuso come reato spia

Nella pratica dell’ascolto e dell’accompagnamento si incontrano delle costanti che meritano attenzione: l’abuso di coscienza come tragico preludio di forme di abuso sessuale e la frequenza dell’abuso in adulti vulnerabili. Vi è una stretta connessione tra abuso di coscienza, spirituale e sessuale: la chiave interpretativa di questa forma di abuso sta nell’esercizio della autorità spirituale in modo deviato e improprio rispetto al suo fine specifico, quello di avvicinare l’altro a Dio.

Questi abusi avvengono nelle forme di antiche e nuove esperienze di vita fraterna consacrata, in movimenti e associazioni, nelle quali il fondatore/trice o il/la superiore manipola la coscienza dei membri strumentalizzando la loro relazione con Dio. Possono accadere più ordinariamente anche all’interno delle relazioni di confidenza e consegna della propria intimità ad un sacerdote: durante l’accompagnamento spirituale e la confessione. Proprio in questo ambito molto delicato vengono compiuti atti e gesti di carattere abusante, comprese forme diverse di molestie e abusi sessuali anche molto gravi.

Le persone ferite, l’adulto vulnerabile: nell’accompagnamento terapeutico ci si imbatte frequentemente in persone adulte che sono già state abusate quando erano minorenni e nella cui storia personale l’abuso è stato poi reiterato.

Fatta salva la vulnerabilità che riguarda forme di disabilità e di gravi patologie psichiatriche, la realtà delle situazioni esistenziali è molto più ampia e articolata. Fa pensare molto il fatto che, nonostante questa sia una realtà diffusa, è come tenuta tra parentesi, non viene sino in fondo riconosciuta perché di difficile esplicazione e di conseguenza è poco indagata. Molti servizi interdiocesani e diocesani parlano solo della tutela dei minori che è realtà molto importante, ma senz’altro parziale. Tra l’altro spesso la persona ferita di oggi è il piccolo o la piccola abusata ieri nel contesto familiare in senso stretto (genitori) o nella famiglia allargata (parenti) o nella cerchia degli amici di famiglia.

L’esperienza di ascolto di adulti ci presenta almeno tre livelli di vulnerabilità che aprono a riflessione.

Primo livello essenziale: la vulnerabilità ha inizio nel momento in cui una persona si confida, consegnando esperienze e tempi particolarmente difficili della sua vita ad un altro che si ritiene degno di fiducia.

Secondo livello: si attraversano momenti di particolare vulnerabilità dentro a passaggi di vita molto difficili quali, per esempio, malattia, lutti, perdita del lavoro, serie difficoltà relazionali (genitori, famiglia, figli), dubbi consistenti sulla propria scelta di vita. Sono tempi all’interno dei quali cresce la percezione della propria fragilità, si acuisce la perdita di sicurezza e il senso di solitudine.

Terzo livello: riguarda quelle situazioni di vita che possono risvegliare una vulnerabilità più profonda, legata a traumi e ferite che sono già presenti nella storia della persona che, per motivi diversi, non sono stati rielaborati. Riflettendo sulla realtà dell’adulto vulnerabile e degli abusi che avvengono nell’ambito delle relazioni di accompagnamento spirituale e del sacramento della confessione, emerge in modo sempre più nitido che la dinamica dell’abuso è veramente un segnale di allarme su un orizzonte ben più vasto, ci si dovrebbe accorgere che non c’è in gioco “solo” la questione degli abusi, ma anche la qualità sacra di ogni atto ministeriale. Gli abusi su donne consacrate rendono estremamente manifesta questa realtà che necessita di essere indagata e affrontata.

La ricerca e l’attesa della giustizia

Il vangelo ci educa al fatto che la giustizia, come nella beatitudine “beati quelli che hanno fame e sete della giustizia”, è qualcosa da desiderare e qualcosa da mendicare. Desiderare e mendicare, questa è l’esperienza che sino ad ora io ho incontrato camminando accanto alle persone che hanno subito abusi soprattutto quando sono persone che non hanno rilievo – come queste donne – e che non hanno appoggi forti a livello economico perché spesso dopo un abuso si lascia la congregazione e ci si deve riconquistare a fatica il diritto a vivere con dignità.

La giustizia va mendicata, è quindi molto difficile, per chi ha subito abusi, trovare la forza per farlo e sostenere l’umiliazione di dover di nuovo dipendere da qualcuno che ha un forte potere di ruolo sulla propria vita e sulla propria persona. Sono tante le porte alle quali si deve bussare, è difficile trovare avvocati che, con fedeltà professionale, difendano chi è davvero più debole. Spesso ci si trova a dover difendere persone che hanno problematiche personali e che pagano per lungo tempo il pesante costo di forme diverse di vergogna: una suora mediamente è già svalutata, perché è una donna e pure suora, chi si trova che difende una suora?! Alle volte ci sono condizioni di maggiore sicurezza che tutto possa procedere se la persona ha alle spalle una istituzione che si mette in gioco, ma se è rimasta da sola e non ha risorse, è molto difficile e ci potrebbe essere anche il rischio di compromettere la propria fama mettendosi, magari anche, contro ad una istituzione di prestigio quindi più forte e più potente. Difendere i più vulnerabili anche professionalmente è un rischio e ci vogliono coraggio e determinazione. Possiamo dire però con parresia che è una scelta evangelica: una forma preziosa di tutela e prevenzione.

di Anna Deodato

 

Anna Deodato

Consacrata, appartiene all’Istituto delle Ausiliarie Diocesane di Milano. È membro del Consiglio di presidenza del Servizio nazionale per la tutela dei minori della Conferenza episcopale italiana, del Servizio regionale delle diocesi lombarde e della Commissione congiunta Uisg – Usg. Svolge il suo servizio al Centro per l'accompagnamento vocazionale di Milano. Ha scritto “Vorrei risorgere dalle mie ferite. Donne consacrate e abusi sessuali”, Edb