· Città del Vaticano ·

Bailamme

La tavola lasciata apparecchiata

29 ottobre 2021

All’approssimarsi del giorno dei morti andiamo noi a trovarli nei cimiteri i nostri cari, un tempo si usava anche, nel loro giorno, aspettarli e accoglierli in casa, magari lasciandogli una tavola apparecchiata, oppure non sparecchiando proprio. In una delle più belle poesie dedicata alla sorella Maria, La tovaglia, Giovanni Pascoli fa riferimento all’usanza di raccomandare alle bambine di sparecchiare la tavola dopo mangiato, altrimenti sarebbero venuti i morti: Le dicevano: — Bambina! / che tu non lasci mai stesa, / dalla sera alla mattina, / ma porta dove l’hai presa, / la tovaglia bianca, appena / ch’è terminata la cena! / Bada, che vengono i morti! / i tristi, i pallidi morti! Nei versi successivi vediamo Maria, diventata grande, fare tutte le faccende di casa con cura e attenzione, e non dimenticare niente, eccetto una cosa, sparecchiare la tavola. Maria infatti pensa a tutto, ma non pensa / a sparecchiare la mensa. / Lascia che vengano i morti, / i buoni, i poveri morti.

E vediamo come Maria, nella sua lunga vita tutta nascosta dietro al fratello (gli sopravvisse quarant’anni), dedita alla cura e conservazione della sua memoria e delle sue opere, deve aver dato e detto molto a Giovannino, e alla sua poesia.

Lasciare venire i morti, questo ci dice Pascoli attraverso Maria, o Maria attraverso Pascoli. I morti, poi, non “tristi e pallidi”, ma “buoni e poveri”.

Tutta la poesia del grande romagnolo è un lungo dialogo con Omero, e con Virgilio. Anche Ulisse nel libro xi dell’Odissea lascia venire i morti. È quando, sceso nell’Ade, deve incontrare l’anima dell’indovino Tiresia, perché questi gli dia indicazioni preziose per il suo viaggio di ritorno. Circe gli aveva detto che per attirare le anime dei morti avrebbe dovuto scavare una fossa e sacrificarvi animali. Attirate dal sangue, si sarebbero assiepate intorno al pozzo. Non gli avanzi della tavola, come nella poesia di Pascoli, qui, ma, più crudamente, il sangue. Circe anche si era raccomandata di non permettere ai morti di avvicinarsi al sangue prima che forse apparso Tiresia, e Ulisse avesse potuto parlare con lui.

Ma ecco che la madre di Ulisse si affaccia subito, prima di Tiresia. Lui la vede e capisce che è morta, ma pur nel dolore lancinante la spinge via, e a noi che leggiamo si ferma il respiro. Sappiamo che la madre non lo riconosce, potrà farlo solo dopo aver bevuto il sangue, ma la forza di Ulisse nel respingerla ci abbacina. Come quando, travestito da mendicante, è davanti alla moglie che gli parla di Ulisse, e a lei escono le lacrime (le si sciolsero le belle gote piangendo, / gemendo per il suo sposo, seduto vicino). E Ulisse vorrebbe certo piangere anche lui ma deve aspettare a farsi riconoscere, e mantiene il ciglio incredibilmente asciutto. Il racconto si spezza ed esce fuori Omero che dice: ma i suoi occhi, quasi fossero corno o ferro restarono / nelle palpebre immobili.

E noi sentiamo che quel cuore di ferro non è empietà, ma pietà. Che per la pietas, e per il bene, ci vuole forza.

Dopo aver parlato con Tiresia, Ulisse può incontrare la madre, ed è un incontro meraviglioso, si dicono tutto e si abbracciano, anche se a Ulisse le mani tornano al suo petto (tre volte tentai e mi spinse ad abbracciarla il mio animo / e tre volte mi volò dalle mani simile a un’ombra / o a un sogno). È lo stesso un abbraccio. (Come anche è un immenso abbraccio, anche se per tre volte a vuoto, quello di Enea con l’ombra del padre, nel vi libro dell’Eneide).

E torna Omero anche in Ungaretti nella famosa poesia La madre, che tutti ricordiamo: E il cuore quando d’un ultimo battito / avrà fatto cadere il muro d’ombra, / per condurmi, Madre, sino al Signore, / come una volta mi darai la mano. Qui non è il figlio che fa aspettare la madre, ma la madre che fa aspettare il figlio.

Gli dà, sì, la mano, ma non lo guarda. È in ginocchio davanti a Dio, come una statua. Ricordate i meravigliosi versi finali? E solo quando m’avrà perdonato, / ti verrà desiderio di guardarmi. / Ricorderai d’avermi atteso tanto, / e avrai negli occhi un rapido sospiro.

di Claudio Damiani