· Città del Vaticano ·

Teologia della misericordia e cultura della cura

Fraternità samaritana

14 ottobre 2021

Dieci collaboratrici e collaboratori della Pontificia accademia per la vita hanno recentemente firmato alcune pagine brevi ma dense, significativamente intitolate Salvare la fraternità insieme, che costituiscono un «appello per la fede e il pensiero» rivolto agli studiosi di tutto il mondo — uomini e donne di scienza e di cultura, credenti e non, afferenti o meno a una qualche tradizione religiosa — per invitarli a instaurare e a coltivare uno «spirito di fraternità intellettuale» che li provochi e li aiuti a «condividere una nuova prossimità con gli abitatori di questo tempo, bello e difficile» nel quale conviviamo.

L’appello si presenta non come un “direttorio di tesi” cui aderire, bensì come un “repertorio di temi” su cui confrontarsi. Fra questi ne sporgono con particolare insistenza tre, peraltro restando sempre connessi l’uno con gli altri: la rivisitazione del sacro, un ben inteso umanesimo, l’amore del prossimo. «Dobbiamo vigilare — si legge nell’appello — sugli effetti dell’impatto del sacro sulla mente dell’uomo. Il vangelo mette un sigillo d’oro a questo presidio: la religiosità medesima deve accettare di essere messa alla prova. Questo sigillo è l’amore del prossimo».

Quasi rispondendo all’interrogativo «chi è il mio prossimo?», rivolto un giorno a Gesù da un dottore del tempio, vale a dire da un teologo di quell’epoca, gli estensori dell’appello — teologi e filosofi a loro volta — precisano che «il prossimo del vangelo è chiunque sia umano e in difficoltà». Così sintetizzano il commento che Papa Francesco ha più estesamente illustrato nel secondo capitolo di Fratelli tutti, interamente dedicato proprio alla parabola del samaritano misericordioso riportata in Luca, 10, 29-37. È un buon input al rinnovamento della riflessione teologica auspicato nell’appello. Difatti, facendo leva sui suggerimenti dell’enciclica, si possono focalizzare i connotati che la teologia dovrebbe acquisire per offrire un suo peculiare contributo alla «fraternità intellettuale», facendola maturare in una fraternità anche “testimoniale” — come pure leggiamo nell’appello — mentre si va svolgendo la metamorfosi epocale dentro cui la stessa teologia, non meno degli altri saperi, avverte l’urgenza di riconfigurarsi. Lo “spirito samaritano” — che già Paolo vi, concludendo il Vaticano ii , rivendicava al concilio — esprime al contempo la prossimità evangelica, l’umanesimo gesuano e la reinterpretazione del sacro. Esso, promanando dall’esperienza della compassione divina, può dare adito a una nuova riflessione teologica, da sviluppare quale teologia imperniata sul principio-misericordia, come tale dotata di lucidità induttiva e di concretezza prassica. Detto altrimenti: di quella intelligenza pastorale che — secondo l’appello — è necessaria per ridare smalto alla governance ecclesiastica non meno che al vissuto ecclesiale tutto quanto.

Lo spirito samaritano induce a rivivere l’inclinazione divina a commuoversi visceralmente per le difficoltà altrui e a prendersi cura di chi da solo non ce la fa a superare i propri limiti, a riscattarsi dalle proprie debolezze, a guarire dalle proprie ferite. Irrompe qui un senso-altro della sacralità, giacché entra in ballo un’attitudine laica, che proietta il credente al di là dei sacri recinti esponendolo al contatto con il profano, così come Dio stesso — in Cristo Gesù — trascende la propria trascendenza per immergersi nell’umano. Il tenore di quest’ultima affermazione è precipuamente cristologico: dice la tensione del Figlio eterno ad assumere, nella sua incarnazione, tutta intera l’umanità. L’evento di Cristo irrompe nell’esperienza religiosa umana con una carica di novità tale da rendere obsolete le consuete ermeneutiche di sacro e profano. Gesù sconfina continuamente nel cosiddetto profano e v’innesta la visita di Dio: mangia con i pubblicani, dialoga con le prostitute, siede a mensa con Zaccheo e si porta dietro il discepolo esattore, come pure i pescatori di Galilea, uomini di fatiche feriali, non addetti al culto sacerdotale o a quello sinagogale. A un fariseo come Nicodemo chiede di rinascere, di ricominciare daccapo, incontrandolo non nell’atrio del tempio gerosolimitano ma nella notte, andandogli incontro cioè nell’oscurità delle sue perplessità. Da quel momento in poi non c’è più alcun diaframma tra sacro e profano: non c’è più un tempio in cui celebrare il culto di Adonai, poiché il nuovo tempio è quello dello Spirito e della Verità, come il Maestro spiega alla samaritana. La parabola del buon samaritano lascia indovinare bene questa sua consapevolezza: quella d’essere ormai oltre Aronne, capace di abitare la strada, come si addice a Dio stesso, che non sta rinchiuso e fermo in templi di pietra, ma cammina col suo popolo e si abbassa su chi è ruzzolato a terra lungo la via. Non per questo si consuma l’esautoramento del sacro. Anzi, ormai il sacro sovreccede, in realtà cessando di distinguersi e distanziarsi dal profano: tutto è sacro.

D’altronde, nella parabola lucana, la figura del samaritano fa da contraltare a quelle del sacerdote e del levita: costoro non si curano del malcapitato perché temono di compromettere la loro purità cultuale, presumendo che il loro rapporto con Dio si giochi tutto dentro il sacrario, nelle stanze più interne al tempio. E non è un caso che Gesù narri la sua parabola a un dottore della legge, invitandolo infine a smetterla di cercare Dio soltanto dentro i rotoli e a fare piuttosto la stessa cosa che il samaritano fa. Il dirsi di Dio nei rotoli della Scrittura richiede che si scenda in campo, comporta la disponibilità a fermarsi e ad accompagnarsi con chi soffre, a incaricarsi di quella medesima sofferenza, a imbrattarsi di sangue, a chinarsi verso quell’umanità martoriata, a inchinarsi nei confronti dell’umano più umano, cioè dell’umano che si ritrova gettato incontro alla morte. La misericordia non può non impastarsi di miseria. Non per niente la voce verbale splanchnízomai, usata nella parabola per descrivere la compassione del samaritano, rievoca il disagio che si avverte dopo aver appreso una notizia angosciante. Lo spirito samaritano è proprio la sensibilità di chi si sente colpito personalmente dall’altrui dolore, tanto da condividerlo e assumerselo. Farsi carico del disagio altrui, prendersene cura, è ciò che il Maestro di Nazaret faceva, secondo i racconti evangelici che ci parlano di lui. Quando sono descritti i suoi interventi in favore degli ammalati d’ogni genere, nei vangeli si trovano quasi sempre le voci verbali therapéuo ed epimeléomai, come appunto nella parabola del samaritano: prendersi cura o somministrare una terapia. Spesso si traducono frettolosamente col termine guarire. In verità Gesù si fermava al grido di quegli infermi, si commuoveva alla loro vista, si lasciava strattonare da loro lungo la via, si intratteneva con chi era prostrato sul bordo della fontana o all’angolo della piazza.

L’attualità di questo antico insegnamento “pratico” è straordinaria. Nella crisi globale che stiamo attraversando si moltiplicano i casi delle persone che sono violentemente ridotte in fin di vita, in un modo o nell’altro, qui o altrove. E si moltiplicano anche l’indifferenza e l’indolenza, la preoccupazione di mantenere intatta la propria purità, che sia economica, che sia culturale, che sia persino religiosa. La misericordia samaritana, teologicamente consapevole di cosa significhi la prossimità e di chi sia il prossimo, esige invece un riposizionamento.

La cultura della cura — tematizzata anche in termini teologici — rappresenta un efficace riposizionarsi. E si mette in atto registrando informazioni attendibili, elaborando una veritiera interpretazione dei fatti, mettendo debitamente a fuoco i problemi, progettando realistiche soluzioni, pianificando interventi mirati. È, insomma, uno sforzo articolato, complesso, complessivo. Una teologia che riuscisse finalmente a contribuirvi, entrerebbe a giusto titolo nell’odierna koiné dei saperi e in quella che il Papa chiama «ecologia integrale».

di Massimo Naro