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Hic sunt leones

Quando la diplomazia africana sbarcò a Roma

A south Sudanese refugee inspects a house, damaged due to floods, in the al-Qanaa village in Sudan's ...
01 ottobre 2021

«Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis», vale a dire, «la storia è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita, messaggera dell’antichità». Queste sagge parole di Cicerone, tratte dal De Oratore ii (9), spesso citate per affermare la funzione ammaestratrice della storia, possono benissimo riferirsi all’esperienza vissuta dal principe Don António Manuel Nsaku Ne Vunda. Inviato a Roma in qualità di ambasciatore nel 1604 dal re del Kongo, Alvaro ii (1578-1614), dopo lunghe peripezie, giunse quattro anni dopo alla corte di Papa Paolo v Borghese. Per comprendere il significato e la portata della sua missione diplomatica, è importante tenere presente che il regno del Kongo, nella lingua kikongo Kongo dya Ntotila o Wene wa Kongo, era uno stato dell’Africa occidentale esistito tra la fine del xiv e l’inizio del xx secolo. Il suo territorio corrispondeva approssimativamente, guardando all’odierna geografia politica del continente africano, a quello dell’Angola settentrionale, della parte occidentale sia della Repubblica del Congo Brazzaville che della Repubblica Democratica del Congo, oltre alla zona meridionale del Gabon.

Nel periodo della sua massima espansione si estendeva dall’Oceano Atlantico a occidente fino al fiume Kwango a oriente, e dal fiume Congo a settentrione, fino al fiume Cuanza a meridione. Il regno, suddiviso in province, aveva come capitale Mbanza Kongo (tuttora capoluogo della provincia angolana denominata dello Zaire) e godeva del rapporto di vassallaggio di molti regni circostanti, come quelli di N’goyo, Kakongo, Ndongo e Matamba. Il monarca locale era chiamato Manikongo e l’etnia principale del regno era quella dei Bakongo, appartenente al grande gruppo etno-linguistico dei Bantu.

Sebbene, in quegli anni, la monarchia dei Bakongo godesse di una notevole autonomia, mal sopportava la tutela spirituale del Portogallo che attraverso il regime del «padroado», aveva il compito d’evangelizzare i cosiddetti «territori d’oltremare». Approfittando della caduta, sotto la monarchia spagnola, della corona di Portogallo, il re kongolese Alvaro ii , il cui nome indigeno era Mpanzu-a-Nimi (1578-1614), inviò a Roma il suo più fidato ambasciatore per trattare direttamente con il pontefice quelle impellenti questioni ecclesiastiche derivanti dall’esigenza di dare maggiore impulso alla cristianità locale e denunciare l’orribile tratta degli schiavi, di cui però il monarca stesso era in qualche modo complice.

Quella di Nsaku Ne Vunda, battezzato e consacrato sacerdote con il nome di Don António Manuel, fu una vera e propria avventura. Così racconta il suo biografo congolese Wilfried N’Sondé, «Per lasciare le coste del Regno di Kongo, si imbarca sull’unico galeone disponibile: una nave negriera che, prima di raggiungere Lisbona, sbarcherà prima il suo sordido carico in Brasile». Il suo fu dunque un viaggio lunghissimo, segnato dagli orribili maltrattamenti e umiliazioni, le stesse che subivano gli schiavi sulla rotta verso il Nuovo Mondo.

Come se non bastasse, durante la navigazione il bastimento venne attaccato dai pirati e incappò ripetutamente nel mare in tempesta. Un viaggio dunque che, per certi versi, rappresenta la metafora dell’odierna tratta degli schiavi, cioè di tanta umanità dolente costretta oggi ad affogare nel cimitero liquido del Mediterraneo. L’arrivo del giovane diplomatico kongolese in Portogallo fu tormentato, in quanto il sovrano allora reggente era Don Filippo iii che all’epoca governava entrambi i regni di Spagna e Portogallo. Egli tentò di bloccare la nave di Ne Vunda poiché non intendeva riconoscere la sovranità del regno di Kongo ritenendo che in forza della prerogativa del «padroado», i popoli africani, una volta evangelizzati, dovessero essere amministrati dal potere coloniale.

Inoltre, Don Filippo iii non tollerava affatto che un diplomatico kongolese potesse parlare al cospetto del romano pontefice, in nome di un regno africano. Ma il principe Ne Vunda, uomo giovane, colto e brillante, che parlava con disinvoltura latino, la lingua utilizzata unicamente dai notabili del tempo, fu capace di convincere il re di Portogallo e di Spagna dell’importanza e della necessità di portare a compimento la sua missione a Roma.

Nel 1607 Ne Vunda finalmente riuscì a raggiungere l’Urbe, non senza però prima sperimentare a terra altre disavventure: febbricitante e malandato, la lettiga su cui viaggiava era scortata da soli quattro compagni d’avventura dei ventisei coi quali era partito dal Kongo. Papa Paolo v , una volta informato, aveva dato ogni disposizione per accompagnare dignitosamente il nobile «nigrita» e quando si rese conto delle sue gravi condizioni di salute lo affidò alle cure dei medici di palazzo. Ma il poveretto spirò prematuramente nel giorno dell’Epifania del 1608. Ancora oggi, nel vestibolo della sagrestia della Basilica di Santa Maria Maggiore, sul colle Esquilino, vi è un busto che lo raffigura, scolpito con una pietra nera nella quale sono stati incastonati due bianchissimi occhi, opera di Stefano Maderno e di Stefano Caporale. Sta di fatto che, nonostante i buoni propositi di Paolo v , dalla prematura morte di Ne Vunda passarono trent’anni prima che il dicastero pontificio di Propaganda Fide potesse erigere formalmente la Prefettura Apostolica del Kongo, affidandola ai frati minori cappuccini italiani.

Il Regno del Kongo sembrò allora che potesse davvero diventare il primo Stato cristiano dell’Africa subsahariana. Ma la storia di questo continente ancora una volta si rivelò impietosa nei confronti dei giusti. Nonostante le buone relazioni con il papato, i contrasti interni e l’arroganza dei colonizzatori, bramosi di avere il pieno controllo del traffico di schiavi e altre mercanzie pregiate, portarono il regno africano alla totale rovina. Sta di fatto che alla fine del secolo xviii il grande regno del Kongo era ormai ridotto a pochi villaggi intorno a São Salvador, nell’odierna Angola.

Nel 1914 fu formalmente soppresso dai portoghesi e annesso al loro impero coloniale, anche se parte del suo territorio era già stato smembrato tra Belgio e Francia. Si concluse dunque così il sogno di Ne Vunda anche se la sua testimonianza è stata espressione di quella chimera verso cui dovrebbe tendere ogni buon diplomatico che crede nel dialogo tra le nazioni. Una cosa è certa. Facendo tesoro dell’ardore di questo intrepido ambasciatore dell’ormai defunto regno del Kongo, forse mai come oggi, occorre rilanciare la centralità della diplomazia.

Come sottolineato dal cardinale segretario di Stato Pietro Parolin a Potenza il 29 giugno del 2019, in un intervento sugli elementi di novità della diplomazia della Santa Sede con Papa Francesco, «la vita umana va salvata in qualsiasi maniera». Un chiaro riferimento questo al tema della mobilità umana dal Sud del mondo. Il porporato ha poi precisato che «le finalità della diplomazia della Santa Sede si sintetizzano nella ricerca e nella promozione della pace, che nella Gaudium et Spes non è solo assenza di conflitto, ma che deriva dall’ordine e della giustizia, somma di beni materiali e spirituali.

Altre diplomazie hanno interessi economici o militari». Vi è poi il valore delle periferie «che aiutano il centro a capire il mondo» e questo in concreto significa andare al di là di una visione eurocentrica. L’irrisolta questione migratoria da questo punto di vista è emblematica e rappresenta una grande sfida per la diplomazia. «La terza caratteristica è quella della pro-attività: non aspettare di reagire durante le crisi, ma prevenire ed essere presenti». Ecco perché il posizionamento della Santa Sede sulla scena internazionale, sotto questo pontificato, è più che mai finalizzato ad affermare il primato della Casa Comune dei popoli con l’originalità impressa dal messaggio evangelico. Un indirizzo che sicuramente Don António Manuel Nsaku Ne Vunda condividerebbe se oggi fosse qui con noi.

di Giulio Albanese