· Città del Vaticano ·

Novant’anni anni fa un lungimirante articolo di Giovanni Battista Montini

La bellezza come testimonianza della verità

 La bellezza come testimonianza della verità  QUO-214
21 settembre 2021

Nell’estate del 1931 monsignor Giovanni Battista Montini sottoscrive il programma della nuova rivista «Arte Sacra» (che viene pubblicata a Roma, tra mille difficoltà, fino al 1934) e ne firma l’articolo di apertura, dal titolo Su l’arte sacra futura, chiedendosi: «Quale sarà l’indirizzo dominante l’arte sacra del nostro secolo rinnovato e rinnovatore?».

Fin da giovanissimo il «Papa degli artisti» ha espresso le sue prime riflessioni sull’arte, che deve divenire testimonianza della verità per il mondo contemporaneo: «La bellezza tradotta sensibilmente nell’arte dev’essere mezzo per parlare di verità a questo secolo. È obbligo nostro di vestire il cristianesimo d’ogni bellezza, se veramente vogliamo che a esso le anime accorrano e si salvino». Meditando la prima edizione francese del 1920 di Arte e Scolastica di Jacques Maritain, che definisce «aureo libretto», il novello sacerdote don Battista vi ha trovato una concettualizzazione precisa del discorso sulla bellezza e sull’arte, che mentre salvaguarda l’autonomia dell’arte, raccorda nella responsabilità dell’artista il bello e il bene, rifiutando la formula dell’arte per l’arte. Bisogna distinguere, senza separare, la religiosità dell’arte e l’arte sacra, riconoscendo all’opera d’arte una sua intrinseca religiosità come partecipazione all’atto creativo di Dio, e all’arte sacra una ulteriore destinazione liturgica.

Quando è assistente della Fuci, tra la fine del 1923 e il 1933, prima del circolo romano poi a livello nazionale, Montini scrive sulla rivista «Studium» alcune analisi critiche letterarie e artistiche firmate “Sator” e con altri pseudonimi; e favorisce anche tra gli universitari cattolici un gruppo di studi artistici e alcuni concorsi di pittura e scultura. L’arte è una «primaverile finestra», afferma nel 1929, alla quale i cattolici devono affacciarsi in quanto cattolici.

Tornato in Italia dopo il viaggio dell’estate del 1928 all’abbazia di Beuron nel Baden-Württenberg, considerata la culla dell’arte sacra moderna, l’assistente informa i giovani della Fuci con un articolo, L’arte di Beuron, in cui rileva i «molti grandi peccati dell’arte sacra moderna: come quello, fondamentale, di fermare a sé lo sguardo e non introdurlo agli arcani dell’Invisibile; e quello, diffusissimo, di non conoscere più il linguaggio vero della teologia e del simbolismo cristiano, per sostituirvi non so che strana religiosità dell’artista». E conclude: «L’arte di Beuron è sotto questo aspetto vittoriosa e ammirabile. Essa è arte religiosa pura: essa non suscita altra emozione che la devozione; essa non rivela altre scene che quelle della fede». In un corso di lezioni sulla morale cattolica, pubblicato nel 1931, Montini sviluppa un’analisi approfondita dei rapporti tra arte e morale. Non vi può essere «un insanabile contrasto» scrive «tra il fine morale, tutto perpendicolare e tutto immanente, del Bene e il fine artistico, tutto orizzontale e tutto espressionistico, dell’Estetica».

Nell’editoriale del luglio-settembre 1931 in «Arte sacra», rispondendo alla domanda, afferma che l’arte sacra moderna dovrà «dirigersi risolutamente verso l’essenza del cattolicesimo, e con quella misurarsi, quella tentare di esprimere nel suo linguaggio, poiché anche nella religione oggi si cerca l’essenziale, l’originario; ciò ch’è sostanziale; ciò ch’è primieramente vitale. E, se l’arte camminerà con questa meta davanti agli occhi, andrà diritto e lontano, e avrà folle di spiriti moderni e intelligenti che la seguiranno». L’arte sacra sarà «l’espressione del realismo, teologico e dogmatico, e perciò ontologico, soprannaturale, mistico della nostra religione».

In un appunto di questi anni ’30, Montini si propone di studiare a fondo due «leggi»: la «moda artistica», che inevitabilmente influenza gli artisti, e la loro libertà. Ne deriva «che chi vuole modificare le correnti artistiche contemporanee o reagire contro di esse non può tanto pretendere di sottrarre gli artisti dall’influenza del tempo quanto deve prospettare nuove attrattive ad essi, deve introdurre nuove idee, nuove forme di sensibilità e d’espressione». Qual è dunque il compito dell’artista? Appunta Montini: «Perciò l’artista deve ritornare - intimamente pio, orante, desiderante - istruito sul catech. - precursore d’uno stato di spirito che riesca a ricomporre in Cristo l’unità dello spirito umano ora sezionato […] nella convinzione che “omnia in Christo”».

Ed è significativo che l’arcivescovo Montini e poi Paolo vi assegni addirittura una missione para-sacramentale, para-sacerdotale, agli artisti, perché devono trasmettere la bellezza e la fede. Nel 1929 in «Studium», scriveva: «Il vero artista è, in un certo senso, il santificatore della vita». E nell’articolo in «Arte sacra»: «Quell’“omnia instaurare in Christo” sono prima i santi a divinarlo e a promuoverlo; ma sono gli artisti i primi che, nella sfera loro propria, possono perfettamente raggiungerlo».

Nell’omelia per la messa di mezzanotte del Natale 1962, il cardinale Montini cita — tra tutte le vie dell’umano in cui Cristo attende i moderni — innanzitutto «la via della verità», «la via della giustizia» e «la via della pace»; e, subito dopo, «la via dell’arte», prima ancora di quella «della spiritualità, [...] del lavoro, [...] del dolore, [...] della felicità», e via dicendo. A Milano, questa sensibilità si articola intorno al grandioso progetto per le nuove chiese, sostenuto da decine di artisti, ai quali Montini dice di rilevare un «desiderio, ormai profondo e nettamente pronunciato, ch’è nel mondo artistico di riprendere contatto col mondo religioso». Durante la celebrazione della «messa degli artisti» aggiunge: «La Chiesa […] vi dice: “[…] Io ho da elevare la vostra arte a Sacerdozio, che sia mediatore tra Dio e gli uomini”. La Chiesa ha bisogno del magistero e del ministero degli artisti». Ed egli dimostra un’apertura mentale in questo campo e uno spazio di libertà lasciato agli artisti, vincolato ovviamente alle forti esigenze di diffusione concreta della fede: «Vi è stato detto, e non solo a Milano: fate quello che volete! […]. Siate veramente in comunicazione ed in sintonia con il culto e con la spiritualità cristiana; e dopo fate quel che volete! […]. Dite quel che volete, artisti, purché — ripeto — ci sia questo innesto fra il vostro linguaggio e il mio, fra la mia liturgia e la vostra espressione».

Paolo vi , il 7 maggio 1964, durante la celeberrima messa per gli artisti nella Cappella Sistina, ribadirà che tra Chiesa e artisti deve riannodarsi un’alleanza — rotta tempo addietro su responsabilità di entrambi — per portare al mondo il bello e il divino: «Ci permettete una parola franca? Voi Ci avete un po’ abbandonato, siete andati lontani, a bere ad altre fontane, alla ricerca sia pure legittima di esprimere altre cose; ma non più le nostre. […] Vi abbiamo talvolta messo una cappa di piombo addosso, possiamo dirlo; perdonateci! […] Rifacciamo la pace? quest’oggi? qui? Vogliamo ritornare amici? Il Papa ridiventa ancora l’amico degli artisti?». E il Pontefice così esprime a Jean Guitton il suo auspicio: «Oh sì! che l’arte non si chiuda davanti al soffio dello Spirito Santo!».

di Giselda Adornato