· Città del Vaticano ·

La resistenza degli indigeni

 La resistenza degli indigeni  QUO-209
15 settembre 2021

La distruzione della foresta amazzonica (che quest’anno ha fatto registrare un più 54 per cento rispetto al 2020) si traduce inesorabilmente in aggressione diretta contro gli indios che ne sono gli ancestrali abitanti: 390 popoli che raggiungono a malapena i due milioni di persone, e 116 gruppi di "isolati" — i più vulnerabili — che si nascondono nella foresta rifiutando ogni contatto. Un’aggressione che cresce e li assedia su tutti i fronti.

Sono molti i nemici di questi popoli pacifici e dotati di una sapienza ancestrale straordinaria, che, in un dialogo rispettoso dei loro diritti e della loro identità, potrebbe anche “curare” quella malattia dell’anima dell’uomo occidentale che chiamiamo crisi ecologica ed emergenza climatica. Sono innanzitutto i fazendeiros, i grandi latifondisti che avanzano impuniti, i garimpeiros, i cercatori d’oro (di cui è tappezzata l’Amazzonia), che assaltano i villaggi e vi portano droga alcol e prostituzione, i cacciatori e i pescatori, sempre pronti a uccidere gli indigeni, e i madeireiros, i tagliatori di alberi dal legno pregiato.

E da ultimo il covid, che ha sterminato centinaia di grandi vecchi, come Feliciano Lana (l’artista cantore dell’identità indigena), rendendo più fragile la tradizione (ancora sostanzialmente orale) e la memoria dei valori ancestrali.

Ma, in un clima politico molto sfavorevole (e di cui il progetto di legge 490 sul marco temporal è espressione eloquente), la stessa Funai, l’organismo federale che presiede alla difesa dei popoli indigeni, si sta “militarizzando” e trasformando in strumento di controllo e omologazione. In conseguenza di questi attacchi, molti indigeni abbandonano i loro villaggi e si ammassano, senza terra né lavoro  e con una identità culturale sempre più fragile, nelle periferie delle città. A Manaus ce ne sono 35.000. Ed alcune etnie, come i Cambebas di San Paolo di Olivenca, hanno perduto ormai definitivamente il profilo identitario.

Ma, mentre crescono gli attacchi, cresce anche la resistenza indigena. Che non si limita alla grande manifestazione di tutti i popoli originari di fine agosto, e a quella delle donne indigene di inizio  settembre  a Brasília. L’onda è più vasta e radicale, e fa perno  sui valori dell’arte e della civiltà indigene, coinvolgendo tutti i municipi dell’Amazzonia e gli stessi villaggi — le aldeias —  anche le più disperse e irraggiungibili.

Ho partecipato alla performance della compagnia teatrale Vitoria Regia dell’artista e attivista  Socorro Papoula sui temi della cultura indigena e della sua foresta; ho visto all’opera Rai Campos, in arte Raiz, che ha tenuto mostre anche in Germania e negli Stati Uniti, che a San Gabriel da Cachoeira (la città al 93 per cento indigena dove vivono ben 23 etnie diverse) ha dipinto il muro di un’intera strada ispirandosi ai temi della vita e delle opere del suo maestro Feliciano Lana. Ma soprattutto ho parlato con i capi — i cassique — di molti villaggi e con alcuni loro sciamani — i  pagè —; e nel villaggio di Maturacà  ho partecipato alla festa yanomami della caccia e della banana. Ricordo che la luce bianca del plenilunio inondava l’immenso cielo amazzonico. Su un lato del grande spazio centrale sedevo in terra con Xavier, il giovane pagè  yanomami, mentre si succedevano le danze e i canti in quell’ora di madrugada, così cara  ai popoli indigeni. «È l’ora della nostra resistenza. Non possiamo più permettere questi attacchi alla nostra terra. Chiediamo un marco territorial, una precisa definizione del nostro territorio, e il suo rispetto da parte delle Autorità. Abbiamo ricevuto commenti entusiastici da parte dei nostri rappresentanti, uomini e donne, inviati a Brasília. Ma ora la lotta deve continuare per riappropriarci del bom viver, del nostro tradizionale stile di vita». E mi canta una canzone, come un concerto di uccelli di foglie e d’acqua, che dice: «Noi siamo grati per la pioggia, per l’aria, per la foresta e i mille fiumi che la fecondano. La nostra terra è madre per noi popoli indigeni, ma lo è anche per tutta la razza umana».

Accanto a noi c’è monsignor Edson Damiani, lo straordinario “vescovo della foresta e degli indigeni”. A 73 anni, sempre pronto a salire su una canoa, anche per nove ore di navigazione, e se necessario tirandola a mano sulle rapide, per condividere la sua vita e la sua fede con gli indigeni della smisurata diocesi di San Gabriel. «Quello in atto — mi dice senza mezzi termini — è un genocidio e un biocidio. La nostra Chiesa non può stare che con gli indios e la loro foresta. Una Chiesa amazzonica, come la vuole il Papa».

di Raffaele Luise