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Se in Rwanda ci si siede a terra

Rwanda's Liliane Mukobwankawe (2nd R) receives a ball during a sitting volleyball pool match between ...
04 settembre 2021

«In Rwanda molti giovani con disabilità, soprattutto le ragazze, non vanno a scuola, non lavorano, neppure escono dalle loro stanze»: la mentalità dominante prevede che «se hai una disabilità non puoi fare nulla nella vita, devi solo stare chiuso in casa aspettando di morire». Per Liliane Mukobwankawe, 32 anni, il vero successo del movimento paralimpico nel suo Paese è «stravolgere questa visione». Attraverso una vera «rivoluzione culturale» sulla percezione della disabilità.

Liliane sta portando avanti questa “partita” fondamentale sia come capitana — già a Rio de Janeiro nel 2016 — della squadra nazionale rwandese di sitting- volleyball (la pallavolo “da seduti”) sia come come rappresentante, dal 2017, delle donne per il comitato paralimpico nazionale.

Proprio per il suo appassionato stile di testimonianza è stata scelta tra i cinque atleti che, nella cerimonia inaugurale delle Paralimpiadi (che si concludono domani, 5 settembre), lo scorso 24 agosto, hanno portato nello stadio di Tokyo la bandiera del Comitato internazionale paralimpico.

«Il sitting-volley è una straordinaria opportunità di inclusione» racconta Liliane che ha iniziato a praticarlo nel 2012, entrando nella squadra nazionale nel 2015. «La particolarità consiste nel fatto che i giocatori sono seduti per terra e possono far parte della squadra anche persone che non hanno una disabilità fisica ma desiderano condividere un’esperienza sportiva e non solo».

Con questa «proposta di inclusione attraverso il sitting-volley», Liliane viaggia per il Rwanda visitando i centri per persone con disabilità «per cercare di fare il possibile perché soprattutto le donne abbiano accesso all’istruzione e al lavoro». E l’attività paralimpica si sta rivelando uno strumento sempre più efficace.

«Pare sempre più evidente — afferma — che uno dei modi migliori per sostenere le persone con disabilità è creare esperienze di comunità e opportunità di incontri attraverso il sitting-volley e, in questo senso, è stato uno straordinario successo la qualificazione del Rwanda, unica squadra dall’Africa subsahariana, alle Paralimpiadi».

Le partite non sono andate proprio benissimo, in un girone “di ferro” con Stati Uniti d’America, Cina e Comitato paralimpico russo. Una serie di secchi 0-3. Ma, in fondo, vincere non era l’obiettivo principale.

«Siamo agli inizi, in campo abbiamo lottato, siamo state unite e solidali, però le altre squadre sono più forti, giocano da molto più tempo» riconosce Liliane. Ma «abbiamo già iniziato a prepararci per andare alle Paralimpiadi di Parigi nel 2024» le fa eco l’allenatore Jean Marie Vianney Nsengiyumva. E racconta del progetto che prevede la costituzione di sempre più squadre di club: un vero e proprio campionato, una «rete nazionale» che consentirà alle giocatrici di migliorare. Facendo anche esperienza di inclusione.

In Rwanda già ci sono 18 club di sitting-volley maschili e 12 femminili. «La nostra squadra nazionale è composta da giocatrici che provengono da tutti i distretti ed è, quindi, veramente espressione di tutto il Paese» rilancia Liliane.

A Tokyo con Liliane sono scese in campo Carine Kwizera, Agnes Nyiranshimiyimana, Chantal Mutuyimana, Claudine Bazubagira, Claudine Murebwayire, Claudine Uwitije, Clementine Umutoni, Hosiana Mulisa, Louise Migirwanake, Sandrine Nyrambarushimana, Solange Nyiraneza e Zanika Nikuze.

In sostanza alle Paralimpiadi il Rwanda è stato rappresentato proprio da queste 13 ragazze con storie di dolore, emarginazione e riscatto. A loro si è aggiunto Hermas Muvunyi che ha corso i 400 metri nell’atletica leggera.

E con questo «spirito di unità» la nazionale di sitting-volley sta «dando una nuova ispirazione alla società intera, proponendo una visione diversa delle persone con disabilità». Insomma, conclude Liliane, «la mentalità sta cambiando e, grazie alla crescente popolarità dello sport paralimpico, in Rwanda oggi c’è molto più sostegno culturale, ci sono più porte aperte per le persone con disabilità perché tutti, finalmente, vedono cosa siamo in grado di fare».

Soprattutto, conclude Liliane, «non vorrei che accadesse ad altre ragazze quello che è successo a me. Il fatto che io non sia in grado di piegare la gamba destra non può impedirmi di vivere. La mia storia è semplice: sono stata investita da un’auto quando avevo 9 anni. I miei genitori mi avevano mandato a comprare il latte e mentre attraversavo la strada sono stata travolta. Nell’urto mi si è rotta la gamba destra. Purtroppo non mi hanno curata adeguatamente e l’osso si è irrimediabilmente deformato». Ma «non mi sono mai rassegnata e a chi ha una disabilità, piccola o grande, voglio far vedere che si può trovare una strada nella vita, anche attraverso lo sport che consente di non restare da soli».

Per l’Africa in particolare, e la grande copertura mediatica per le Paralimpiadi è decisiva, constatare che persone con disabilità conquistano dignità anche facendo sport significa comprendere, a tutti i livelli, che si possono aprire spazi nelle scuole e nel lavoro. Insomma, da reclusi nelle case o nei centri di assistenza all’autonomia nella società.

di Giampaolo Mattei