· Città del Vaticano ·

Il judo come forma di riscatto sociale tra le Vele di Scampia

Il “clan” dei Maddaloni

 Il “clan” dei Maddaloni  QUO-191
25 agosto 2021

«Chi cresce a Scampia, come nelle altre periferie del mondo, al 90 per cento è a rischio. Poi c’è chi ha il genitore che lo mette sulla giusta strada, chi sfortunatamente non ce l’ha e chi, fortunatamente, incontra Gianni Maddaloni».

Francesco Pio, 20 anni, ha spalle larghe e muscolose sotto il kimono azzurro e una data scolpita nella mente: 14 febbraio 2014. Aveva 14 anni e l’educatore che cercava di toglierlo dalla strada portandolo in una palestra un giorno gli presenta un uomo. «Mi è sembrato antipatico, attiggiuso, come diciamo a Napoli», racconta Pio. Con il suo vocione mi fa salire sulla materassina dove faccio il primo allenamento e alla fine mi fa: “Ma tu lo vuoi fare il judo?”. Sì, ma non ho i soldi, gli ho risposto. Lui mi chiede di fargli conoscere mio padre e io gli dico che era in carcere. Allora lui mi guarda e mi dice: “Tu da oggi in poi sei mio figlio”».

Quel giorno Pio, che scappava dalla scuola sin da quando aveva sei anni e che collezionava note di richiamo, ha dato una sterzata alla sua vita di scugnizzo a Scampia, un quartiere della periferia nord di Napoli diventato famoso in tutto il mondo grazie al libro di Roberto Saviano, Gomorra, che ha ispirato prima il film di Matteo Garrone e poi, successivamente, l’omonima serie. Identificato con i palazzoni di cemento grigi chiamati Le Vele per la caratteristica forma triangolare, Scampia, per tutti, è il simbolo del degrado e del disagio sociale. Uno stigma marchiato sulla pelle degli abitanti. «Ma le cose sono cambiate. Le feroci faide tra clan sono finite nel 2005 e non ci sono più rapine e violenze. C’è solo un po’ di spaccio, come in tante altre parti d’Italia», sostiene Gianni Maddaloni, Maestro di Judo e titolare della palestra Star Judo Club Napoli, un’istituzione nel quartiere. «La maggior parte delle persone che vive qui è onesta. Ha bisogno solo di lavoro e di dignità».

La Star Judo Club sforna campioni come cornetti una pasticceria. I primi tre dei sette figli di Gianni, sposato due volte, Pino, Laura e Marco, hanno vinto un numero incalcolabile di medaglie e Pino, il primo figlio, ha conquistato anche l’oro alle Olimpiadi di Sidney, nel 2000. Ma le soddisfazioni non sono arrivate solo dai figli. Si comincia a prendere nota dei nomi e delle qualifiche che il Maestro snocciola ma ci si perde subito. È un elenco infinito di giovani pluridecorati che hanno riscattato l’immagine negativa del quartiere, dove permane l’emergenza abitativa e una povertà diffusa. E proprio per andare incontro a chi non ha possibilità economiche, Maddaloni mette a disposizione gratuitamente la sua, e quella degli altri allenatori, sapienza sportiva. «Su 400 persone iscritte, nel periodo pre-Covid, solo 120 pagavano la quota sociale di 20 euro», dice, perché «lo sport è un diritto di tutti». Ora gli iscritti paganti sono pochissimi «ma la palestra riesce ad andare avanti grazie ad alcuni amici che mi vogliono bene». Le pareti del centro sportivo sono tappezzate da medaglie, riconoscimenti, lettere di affetto di piccoli judoka, articoli di giornali e un messaggio di elogio di Papa Francesco. Una foto ritrae uno scricciolo di bambino con il kimono azzurro in posa vicino al possente papà. È Bright, metà nigeriano e metà maliano, ora tutto napoletano. Adottarlo a due anni e metterlo su un tatami è stato tutt’uno. Perché il judo non è solo uno sport, è «stile di vita, formazione, legalità, Valori, regole, amore». Ora Bright ha 18 anni, indossa una tunica di qualche taglia più grande e sogna di arrivare alle olimpiadi del 2024, a Parigi.

Nell’ingresso c’è un continuo andirivieni. Gli allievi salutano con un inchino e una stretta di mano “O’ Mae’” e corrono ad allenarsi. Tra i frequentatori anche quattordici detenuti, che passano metà della loro giornata nel centro, riconosciuto luogo di accoglienza e di rieducazione per persone che stanno scontando una pena. Chi può si allena, chi non può dà una mano. Indossano il kimono anche ciechi, persone con sindrome di down e autistici, con grandi risultati. E una volta a settimana, si distribuisce il cibo fornito dalla Caritas a 200 persone delle Vele.

Si chiama «Progetto Maddaloni» e si basa sul principio dell’attenzione agli ultimi e della giustizia sociale. «Delinquenti non si nasce, si diventa. La malvivenza è figlia delle poche opportunità». Lo sa bene lui che ha corso lo stesso rischio. A Scampia, il piccolo Gianni passa il suo tempo per strada a giocare e a fare a botte. «Quando verso i 12 anni stavo diventando più che uno scugnizzo ho incontrato un amico che mi ha portato a fare boxe. Mio padre era orgoglioso perché anche lui, poliziotto della stradale, era un pugile. E io avevo modo di impiegare le mie energie in qualcosa di sano». Ma nell’inanellarsi di svolte che la vita regala ce n’è una drammatica che scombussola tutti i suoi programmi. A 16 anni Gianni perde il padre in un incidente con la moto ed è costretto a lasciare la scuola per andare a lavorare lontano da casa. Con i soldi guadagnati come aiuto muratore mantiene tutta la famiglia, la mamma e i cinque fratelli più piccoli. A 18 anni il ragazzo ottiene un posto all’Università degli Studi di Napoli Federico ii e può fare ritorno a casa. «Una fortuna, ma sentivo la mancanza di un punto di riferimento importante. Lo trovai in palestra. Enrico Bubani per me è stato Maestro di Judo e di vita. È stato lui che mi ha indicato la strada». Gianni si sposa a 19 anni e a 20 ha il primo figlio. Nel 1991 apre la Star Judo Club e le medaglie cominciano a fioccare. Fino a quella più importante di tutte. Cosa ha provato quando Pino ha vinto l’oro olimpico? «Ho pianto per 45 minuti». La fama è foriera di proposte di incarichi federali e politici da parte di tutti i partiti, «ma io voglio rimanere qui. Prima di partire per l’Australia ho promesso a Dio che se avessimo vinto mi sarei dedicato alla mia gente, e ho mantenuto la parola», dice Gianni, che vorrebbe realizzare una serie intitolata Il clan dei Maddaloni. «I giovani hanno bisogno di esempi, di modelli positivi».

Pio, diventato cintura nera di judo dopo appena un anno e mezzo da quel giorno fatidico, un modello positivo lo è senz’altro. Gira l’Italia per gare e esibizioni ma lo fa solo per allenamento. «Il mio obiettivo è vincere come istruttore di bambini», dice. «È Pio quello che prenderà il mio posto», sentenzia Maddaloni. «Ha fatto il mio stesso percorso di sofferenza». «Se lo dice lui», si schermisce il ragazzo. «Sono sempre uno scugnizzo e a volte capita che mi venga in mente qualcosa di sbagliato. Ma scaccio subito il pensiero. Tutti noi abbiamo un compito, il mio è quello di non deludere il Maestro».

di Marina Piccone