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Cultura africana e cristianesimo al Meeting di Rimini

Io sono perché noi siamo

 Io sono  perché noi siamo  QUO-189
23 agosto 2021

Pubblichiamo l’intervento pronunciato il 20 agosto al Meeting di Rimini dal presidente della Conferenza dei gesuiti di Africa e Madagascar.

Per comprendere la mia storia, la mia fede e la sfida delle culture sono due le cose che dovete sapere di me.

Mi chiamo Agbonkhianmeghe. Sono diventato un essere umano non il giorno in cui sono nato, bensì il giorno in cui mi è stato dato il mio nome, «Agbonkhianmeghe». Nella mia cultura, finché un neonato non riceve un nome, ancora non appartiene alla comunità dei viventi.

Nella mia cultura dare un nome è essenziale. Attraverso il nome ci relazioniamo con gli altri. Se non posso chiamarti per nome, non posso riconoscere la tua umanità; non posso onorare la tua dignità. E anche tu non puoi riconoscere e onorare le mie.

Il mio nome mi conferisce i privilegi unici dell’individualità. Però il mio nome è una porta, non un muro; un ponte, non una barriera. Il mio nome apre un canale per incontrare e confrontarmi con altri nomi in relazioni aperte.

La seconda cosa che dovete sapere di me è che c’è stato un tempo in cui non ero cristiano. Sono nato nella religione africana e mi sono convertito al cristianesimo solo in seguito. Mia madre era devota alla dea del mare, Olokun, dispensatrice di prosperità e fertilità. Mio padre frequentava ogni sorta di culto e divinità, compreso Osanobua, il creatore dell’universo, il Dio di Gesù Cristo.

Prima della mia conversione al cristianesimo i cristiani trattavano me e la mia religione africana con disprezzo. Mi davano del «feticista», del «pagano», dell’«idolatra», dello «stregone», dell’«animista». La loro retorica offensiva era un attacco sistematico alla mia spiritualità africana. Così, quando sono passato dalla religione africana al cristianesimo ci si aspettava da me che abbandonassi il mio retaggio africano. Mi è persino stato dato un nome — «Emmanuel» — perché il catechista riteneva che Agbonkhianmeghe fosse da pagani e non degno di un cristiano.

Per fortuna ho scelto di non abbandonare il mio retaggio religioso africano. Come potevo rinnegare le esperienze religiose fondamentali della mia adolescenza? Non importa quante volte un leopardo attraversa il fiume: non perde mai le sue macchie. Una zebra non può spogliarsi delle sue strisce.

Oggi sono figlio orgoglioso di due universi. Mentre la religione africana ha risvegliato la mia consapevolezza della Realtà Ultima, il cristianesimo ha accresciuto e reso più profonda la mia consapevolezza di Dio. Apprezzo e celebro queste fondamenta della mia fede; ma sono libero di analizzarle e metterle in discussione quando serve. Credo che Dio continui a manifestarsi attraverso il mio stile di vita ancestrale e la mia cultura, che è il luogo in cui Lui si rivela a me in Gesù Cristo. La mia fede cristiana non rigetta il mio retaggio, la mia cultura e la mia tradizione africani; anzi, la mia fede cristiana mi ha permesso di rafforzare la profonda sensibilità e l’atteggiamento religiosi dei miei antenati.

Nel profondo della mia consapevolezza religiosa provo tensione mentre cerco di continuo l’integrazione e l’armonia tra le mie due tradizioni di fede. Sebbene l’alienazione e il sincretismo continuino a essere tentazioni costanti, traggo una consolazione immensa dalle parole pronunciate da Papa Paolo vi , ovvero che «l’africano, quando diviene cristiano, non rinnega se stesso, ma riprende gli antichi valori della tradizione “in spirito e verità”».

Permettetemi di condividere con voi tre lezioni che ho imparato dal mio retaggio animista e che possono contribuire alla ricerca continua di significato degli esseri umani; tre valori di cui l’umanità oggi ha un disperato bisogno: la solidarietà, la fraternità e l’ospitalità.

Parto dalla solidarietà. Che cosa significa essere animista? Essere animista significa essere in una relazione di solidarietà e di mutualità con il creato. Credo profondamente nella vitalità del creato, che niente è senza vita nel mio ambiente naturale; che «c’è una forza interiore invisibile in ogni cosa in qualsiasi momento» (Laurenti Magesa, What Is Not Sacred? African Spirituality, Maryknoll, NY, Orbis Books, 2013). So che Papa Francesco condivide questa convinzione perché in Laudato si’ ci dice che «ogni creatura ha una funzione e nessuna è superflua (…). Suolo, acqua, montagne, tutto è carezza di Dio» (n. 84).

Quando professo la fede nella vitalità del creato accetto anche il dovere morale di proteggere e curare l’“ecologia ambientale” e l’“ecologia umana”, perché secondo la religione africana tra loro esiste un legame essenziale. Come ha detto Papa Benedetto xvi , entrambe sono costituite «non solo di materia ma anche di spirito» (Caritas in veritate, n. 48, 50). La religione africana concorda con il cristianesimo nel riconoscere il creato come «il meraviglioso risultato dell'intervento creativo di Dio, che l'uomo può responsabilmente utilizzare per soddisfare i suoi legittimi bisogni — materiali e immateriali — nel rispetto degli intrinseci equilibri del creato stesso» (ibidem, n. 48). Credo che vi siano una “interdipendenza di forze” e una connessione vitale tra me e la terra. Quando mi assumo il dovere di proteggere e preservare l’“ecologia ambientale” non faccio un favore a Madre Terra; no, salvo me stesso e il mio mondo. Posso salvare me stesso solo salvando la terra.

La seconda lezione appresa dal mio retaggio animista è di credere che oggi l’umanità abbia un disperato bisogno di quello che Papa Francesco nella sua enciclica Fratelli tutti chiama «fraternità». In Africa la chiamiamo Ubuntu. Quando Francesco dice: «Ognuno è pienamente persona quando appartiene a un popolo, e al tempo stesso non c’è vero popolo senza rispetto per il volto di ogni persona» (n. 182), egli parla Ubuntu: Umuntu ngumuntu ngabantu o Motho ke motho ka batho, che significa «Una persona è persona per quello che sono tutti / per merito di ciò che sono le altre persone». «Io sono perché noi siamo».

Ubuntu è l’essenza della religione e della cultura africana. Ubuntu dà priorità all’inclusione sull’esclusione, alla comunità sulla competizione, all’ospitalità sull’ostilità, al dialogo sulla divisione e al rispetto sulla dominazione. Ubuntu «pone il dialogo al centro di ciò che significa essere pienamente umani» (Gabriel Setiloane).

Come cristiano africano credo nella cultura Ubuntu del primato delle relazioni umane. Secondo la visione Ubuntu del mondo, il coraggio di dire «io» non deve trasformarmi in quello che Papa Francesco definisce «ipertrofia dell’individuo» o «coscienza isolata» (Ritorniamo a sognare, 45-47; 69-76). Il coraggio di dire «io» significa che dipendo in modo fondamentale dalle altre persone per realizzare il senso più profondo della mia esistenza; il mio potenziale umano prorompe attraverso l’interazione con altre persone (Villa-Vicencio, Walk with Us and Listen). Essere umano significa essere aperto, vale a dire affrontare gli altri nella loro insostituibile unicità e differenza. La mia umanità, il mio essere, la mia esistenza sono sostenuti dall’interdipendenza e dalla relazionalità. In Tanzania diciamo: «Le montagne non s’incontrano, ma le persone sì». Come la fraternità, Ubuntu è una cultura dell’incontro e dell’apertura creativa all’altro; è «il sentimento di appartenenza reciproca e al tutto, è capacità di unirsi e lavorare insieme verso un orizzonte di possibilità condiviso» (Ritorniamo a sognare, 68; Fratelli tutti, n. 50).

Dire «io sono perché noi siamo» significa abbracciare un orizzonte di relazioni infinitamente più aperto e reciprocamente arricchente per l’umanità e per la nostra casa comune. Dire «io sono perché noi siamo» significa realizzare «la mia relazione interiore con me stesso, con gli altri, con Dio e con la terra» (Laudato si’, n. 70). Questo dono singolarmente africano dell’Ubuntu dà a me, come individuo, la capacità di trasformare e trascendere le tensioni e le divisioni che ostacolano le relazioni e piantare semi di pace, armonia e fraternità.

Ritengo che oggi più che mai abbiamo bisogno della visione unificante dell’Ubuntu per riparare il tessuto della nostra comune umanità, che viene lacerato da conflitti atavistici, divisioni ideologiche, nazionalismo isolazionista e malevola xenofobia.

La terza cosa che ho appreso dal mio retaggio animista è la cultura dell’ospitalità. Se sono diventato cristiano, il merito è in parte della cultura di tolleranza della religione africana. La religione africana ha accolto il cristianesimo e l’islam. È questo il tipo di fede di cui oggi abbiamo bisogno per sostenere e realizzare il nostro desiderio di riconciliazione e superare il divario ideologico e la distanza settaria tra popoli.

Per come l’ho vissuta io, la religione africana non fa proselitismo né afferma la sua superiorità rispetto ad altre tradizioni di fede. Per questo ritengo che la religione africana sia una salvaguardia contro tentativi estremisti di ridurre l’essenza e il valore della religione a un’ideologia settaria e all’ipocrisia.

Penso che quando Papa Benedetto xvi ha definito l’Africa «un immenso “polmone” spirituale per un’umanità che appare in crisi di fede e di speranza» egli abbia riconosciuto la capacità delle tradizioni religiose dell’Africa di insufflare nuova vita in un’umanità spiritualmente asfissiata. Conosco lo spirito della religione africana; è uno spirito di tolleranza e di inclusività che può rinnovare la nostra comune umanità e insegnarci come vivere un’esistenza degna secondo il Vangelo.

Devo però essere onesto. Ho visto così tanti esempi orrendi di religiosità malefica e di settarismo militante. Mi spaventa vedere tante passioni religiose mortali trasformare il nostro mondo in terreno di guerra e brutalizzare l’umanità innocente. Possiamo davvero chiamare “religione” questo fenomeno di separatismo e intolleranza? La mia risposta è no, perché credo che vi sia una differenza abissale tra religione e fanatismo, tra fede sincera e bigottismo religioso, tra proclamazione autentica della Buona Novella e odiosa retorica, tra il Dio della pace e gli idoli della guerra.

Per concludere, come milioni di africani, io, Agbonkhianmeghe, ho compiuto il passaggio dalla mia fede ancestrale alla fede cristiana. Non è un passaggio facile. Sono ancora in cammino, in pellegrinaggio, perché la mia fede come africano è uno stile di vita, un modo di essere più che una serie di credi, dottrine e dogmi.

Søren Kierkegaard ha avuto ragione a sfidare ciascuno di noi a raccogliere il coraggio per dire «io». Ma come ci ha insegnato anche il filosofo Martin Buber, perché il mio «io» sia autentico deve essere un punto di partenza, una base comune, un centro misterioso per incontrare l’altro. La mia fede come africano celebra questo incontro “io-tu”: anche quando “tu” è un albero, un’opera d’arte, una persona o Dio.

Nel Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune Papa Francesco e il Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb ci insegnano che «la fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare». Se non riesco ad abbracciare sinceramente la presenza e il dolore di un’altra persona nell’incontro, nel dialogo e nell’amicizia, allora la mia fede non è coraggio; è viltà; la mia fede non è sacrificio; è egoismo. «È necessario un movimento popolare consapevole che abbiamo bisogno gli uni degli altri, che siamo responsabili verso gli altri e il mondo» (Ritorniamo a sognare, 6). Il coraggio di dire «io» è il coraggio di incontrare le mie sorelle e i miei fratelli. Questo genere di confronto e incontro rende umani.

Tanti anni fa Papa Paolo vi ci ha insegnato che «l’uomo deve incontrare l’uomo, le nazioni devono incontrarsi come fratelli e sorelle, come i figli di Dio. In questa comprensione e amicizia vicendevoli, in questa comunione sacra, noi dobbiamo parimenti cominciare a lavorare assieme per edificare l’avvenire comune dell’umanità» (Populorum progressio, n. 43).

Possa essere questo il nostro credo a Rimini e nel mondo.

di Agbonkhianmeghe E. Orobator