· Città del Vaticano ·

Il 22 luglio 1882 nasceva il pittore Edward Hopper

L’epica del quotidiano

«Nighthawks» (1942)
21 luglio 2021

Dallo scenario americano delle periferie seppe ricavare una poesia recondita


L’opera di Edward Hopper (22 luglio 1882 – 15 maggio 1967) rappresenta persone intente al lavoro in spazi privati o colte in momenti imprevedibili, tipiche strade americane, vetrine, paesaggi marini, uffici, camere d’albergo, case che si stagliano imponenti, tetti e terrazze. Sono i luoghi del vasto campo dell’esperienza umana ordinaria. Hopper cava anche dal semplice scenario americano delle periferie una poesia recondita. Per questo motivo, fra l’altro, i suoi quadri sono stati accostati alle pagine di Hemingway e ai versi di William Carlos Williams, Wallace Stevens e Robert Frost.

Hopper ammirava Hemingway. È possibile cogliere un’analogia tra la prosa dell’uno e le tele dell’altro: queste ultime, infatti, attente alle forme e alla semplicità, sono capaci di rendere epica e densa di connotazioni la quotidianità della vita, immersa in scenari urbani, nei colori della sera, nel chiarore notturno dei bar o nella luminosità abbagliante di un sole lontano. Ma i quadri di Hopper sono stati accostati anche agli haiku giapponesi, a causa della loro straordinaria bellezza, frutto di una complessa semplicità, come ha affermato l’artista Ushio Shinohara: «Hopper è come un Haiku: poche parole ma grande significato». Lo stesso Hopper in un suo saggio fa riferimento ai pittori giapponesi Hiroshige e Hokusai. La rappresentazione realistica è caricata di un’altissima densità simbolica.

Ma, in realtà, l’opera di Edward Hopper è come un seme deposto nella cultura contemporanea che ha prodotto frutti di ogni genere: ha influenzato pittori quali David Hockey e Mark Rothko, registi quali, ad esempio, Alfred Hitchcock, Wim Wenders, David Lynch, Paul Thomas Anderson, ma anche scultori e fotografi, oltre a numerosi poeti e narratori quali Paul Auster e Raymond Carver. Qualche esempio: Hitchcock si ispirò al quadro House by the Railroad per ambientare il famoso thriller Psycho, così come a Night Windows per il film Rear Window; Wenders è profondamente ispirato da Hopper nella sua fotografia e nella regia di film quali L’amico americano e Paris Texas.

Notissima è la tela Nighthawks (“Nottambuli”) del 1942. Prendiamolo come esemplare dell’opera del pittore statunitense. Il quadro rappresenta un locale del Greenwich Village di New York. È notte, la strada solitaria, le vetrine dei negozi disadorne. Nulla però suggerisce minaccia o pericolo. Il bar, che occupa due terzi della tela, è tutto una lunga vetrata. All’interno è potentemente illuminato da un’intensa e brillante luce artificiale, che riverbera sull’esterno. La forma del bar ricorda quella di un triangolo con un angolo smussato che punta la sua direzione all’esterno della tela, verso sinistra. All’interno il barista, vestito di bianco, rivolge il suo sguardo verso due clienti, un uomo e una donna. Quest’ultima, appoggiata al bancone, è assorta e intenta, con posa spiccatamente femminile, a guardare qualcosa che ha tra le mani. L’uomo che le sta a fianco guarda in direzione del barista, ma i loro sguardi non si incrociano. Le sue mani e quelle della donna non si toccano, sebbene siano vicinissime: si incrociano negli occhi dello spettatore soltanto grazie alla prospettiva. Di spalle vediamo un altro cliente con un bicchiere in mano. I due uomini richiamano per posa e tratti l’Humphrey Bogart di The Maltese Falcon (1941). Tre anni prima il poeta W. H. Auden aveva scritto: «Visi lungo il bancone / s’aggrappano al loro giorno medio / le luci non devono mai spegnersi» (1° settembre 1939). L’intimità non è data dagli sguardi (che non sono ricambiati) né dalla luce (che, sebbene gialla, è fredda). Per sé, anzi, il quadro ha comunicato a molti un senso di radicale isolamento dei protagonisti, come se fosse un «salone delle illusioni perdute» o una sorta di gabbia di vetro o addirittura un acquario colorato.

In tutte le tele di Hopper, la posta in gioco è alta, i significati sono profondi: la solitudine, pur esistendo, è un argomento a latere. La pittura di Hopper è, invece, come afferma egli stesso, un gesto ampio di reazione all’esistenza, un modo completo di occuparsi della vita. E in che cosa consiste questa reazione?

L’elemento che sembra permeare tutti i lavori più importanti di Hopper è una «dimensione di ascolto», che può avere le risonanze emotive più diverse, fino a generare nello spettatore la sensazione di assistere a un momento di incubazione. Il cuore pulsante dell’ispirazione di Hopper, il suo motore, è uno sguardo di profonda e assorta aspettativa, un lento ma profondo ritmo di ascolto e di tensione verso una storia che viene colta e rivelata come in attesa di una annunciazione o di una visitazione. Non è un caso che il pittore per parlare della sua opera abbia usato termini come «sorpresa», «stupore» e «umiltà».

I quadri di Hopper non sono rappresentazioni di una realtà determinata e non vivono in uno spazio e in un tempo definiti: le figure sono come colte in una sorprendente quiete, in attesa che qualcosa avvenga, come se una rivelazione fosse a portata di mano, ma non ancora compiuta. Davanti a ogni quadro è possibile porsi le domande: «Che cosa ha portato a quel momento? Che cosa avverrà dopo quella che sembra un’esplosione inevitabile?». La risposta sta fuori, rispetto alla superficie del quadro. La soluzione dell’attesa non è data, ma suggerita come una necessità ineliminabile: «È come se fossimo spettatori di un evento cui non siamo in grado di dare un nome. Sentiamo la presenza di ciò che è nascosto, di ciò che senza dubbio esiste ma non viene rivelato», ha commentato il poeta Mark Strand.

Ogni immagine è il tassello di una storia in divenire. Il punto di sviluppo di questa energia di attesa è lo sguardo dell’osservatore, che assume i tratti del testimone di un evento che non si è ancora compiuto.

Le scene di solitudine, dunque, non sono definitive nel loro triste equilibrio: domina un’acuta sensazione di attesa, la certezza che qualcosa debba avvenire o qualcuno debba arrivare, anche se non si sa che cosa o chi. Hopper è dunque il maestro che sa fissare l’attimo instabile in cui la vita si manifesta come desiderio di una forma di salvezza.

La luce è ciò che salva l’opera di Hopper dal nichilismo: essa offre la possibilità di redenzione, un raggio di speranza nella dura realtà del quotidiano. La speranza, la salvezza, la redenzione assumono per lo più le connotazioni della luce o del vento. La luce e l’aria possono attraversare finestre e vetri, onnipresenti nei quadri di Hopper, simbolo di un muro sempre e comunque valicabile. Per lui la finestra è come l’apertura di una camera oscura grande come la stanza, che lentamente e fermamente separa la luce dal buio. Hopper è un genio delle finestre.

Il contributo di Hopper alla pittura moderna è stato quello di aver reso epica la noia, di aver sacralizzato i momenti di banale disattenzione della vita di ogni giorno, di aver «battezzato» e «salvato» la realtà con la luce. Hopper ha compreso che, per alludere all’aspetto spirituale della natura visibile, non occorrevano soggetti solenni, temi nobili. Bastava un passaggio a livello, una casa, un tetto.

Egli ha intuito che il mistero più grande non è presente in ciò che è misterioso, ma nella realtà ordinaria, in ciò che apparentemente è lontano dal mistero. I suoi quadri non sono né enigmatici né misteriosi, dunque, ma puntano al cuore del mistero stesso del nostro essere nel mondo. In tal senso le sue immagini sono «visioni». Il loro significato non è di ordine psicologico o sociologico, ma tocca le corde fondamentali della vita umana: il suo permanente stato di incubazione; le tensioni delle sue aspettative; il suo instabile equilibrio tra malinconia e desiderio, tra solitudine e attesa di una «visita»; il suo bisogno di una forma di «salvezza» e di «grazia»; il suo sguardo al di là della «finestra» rivolto verso una possibile «annunciazione».

di Antonio Spadaro