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Approfondimenti
I CubeSat e la New Space Economy

Piccoli satelliti
per grandi missioni

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09 luglio 2021

Non est ad astra mollis e terris via (“Non esiste via facile dalla Terra alle stelle”): il monito di Seneca di duemila anni fa potrebbe essere un perfetto riassunto dell’epopea della conquista dello spazio da parte dell’umanità, che a sessant’anni dal volo di Jurij Gagarin è arrivata oggi a prospettive interessanti nell’ottica del ritorno sulla Luna e dei futuri viaggi su Marte. Se i primi anni di esplorazione sono ricordati per gli imponenti programmi di volo governativi che ci hanno portato, in poco più di un decennio, dal lanciare un semplice satellite in orbita bassa terrestre al far atterrare degli esseri umani sulla Luna, gli ultimi lustri di aerospazio sono riusciti ad avvicinare quanto mai prima d’ora la tecnologia spaziale a tutti noi.

C’è davvero molto “spazio” nella vita di tutti i giorni: basti pensare alle previsioni del tempo, calcolate grazie alle immagini dei satelliti meteorologici, alla navigazione satellitare, ormai usata ed abusata da ognuno di noi, per non parlare del trasferimento tecnologico, grazie al quale i cardiologi di mezzo mondo usano laser inizialmente progettati per piattaforme satellitari di monitoraggio ambientale o dove sensori simili a quelli del telescopio spaziale Hubble hanno potuto abbattere l’invasività delle biopsie per i tumori al seno.

Ma quanto è diventato facile per tutti noi mandare qualcosa nello spazio? Con il benestare di Seneca, è diventato impressionatamente comune. Da un vecchio impianto fatto di pochi grandi protagonisti e grandi programmi di sviluppo, in pochi anni il mondo aerospaziale è arrivato ad una New Space Economy, incentrata su centinaia di attori in grado di realizzare un satellite e di lanciarlo in tempi sufficientemente brevi in orbita.

Una sorta di miracolo tecnologico, quello del pauroso incremento degli sviluppatori di satelliti nel mondo, reso possibile anche grazie all’introduzione di satelliti miniaturizzati, in grado di svolgere la propria missione con pesi e dimensioni molto minori del solito. Da piattaforme che nella maggior parte dei casi sforavano la tonnellata, tipicamente di dimensioni simili ad un Suv, l’economia spaziale è arrivata ad un drastico giro di boa grazie all’introduzione dei piccoli satelliti (small satellites), di dimensioni inferiori a 500 kg, e delle proprie sottoclassi. Come per i pugili, è il peso (o meglio, la massa) del satellite a definirne la categoria: mini-satelliti sotto i 250 kg, micro-satelliti sotto i 50 kg, nano-satelliti sotto i 10 kg, fino ai più ambiziosi pico-satelliti (inferiori ad 1 kg) e femto-satelliti (con masse minori di un etto).

Com’è possibile passare da satelliti del peso di un elefante a quello di un gatto (o, in alcuni casi, di un topo)? La prima risposta è sotto gli occhi di tutti noi: i processori tendono a “dimagrire” nel tempo, rendendo disponibili potenze di calcolo enormi in dimensioni sempre minori. Non è un caso se il computer da cui vi sto scrivendo ha una capacità e una velocità di calcolo che avrebbe richiesto diverse stanze, se non un intero edificio, solo quarant’anni fa. Non possono fare eccezione i computer di bordo dei satelliti, sebbene spesso più lenti di un telefono cellulare: processori più piccoli, componenti più piccoli, satelliti più piccoli. Con benefici enormi: il prezzo per mettere un oggetto in orbita è, come uno dei miei professori ci raccontava al terzo anno di università, come pagare il satellite a peso d’oro. Letteralmente, però: il prezzo per 1 kg lanciato in orbita bassa è infatti spesso simile al prezzo di un chilo d’oro: qualche anno fa si sfioravano i 50 mila euro al chilogrammo. Immaginate l’impatto di un “dimagrimento” importante sulle tasche della propria azienda: miniaturizzare può diventare, in questo settore, una letterale miniera d’oro.

Un’enorme spinta al settore dei piccoli satelliti è stata data anche dall’introduzione di fattori di forma standard nel mondo (soprattutto) dei micro e nano-satelliti. Difatti, l’introduzione di dimensioni standard per i piccoli satelliti ha generalizzato le interfacce tra razzo e satellite (banalmente, come montare il vostro satellite sul razzo), eliminando a priori una delle grane più complesse da affrontare per saltare dal prototipo al modello di volo pronto per il conto alla rovescia. Un po’ come la nostra vita è diventata più semplice quando i cavi di ricarica dei telefoni sono diventati tutti sempre più uguali (e aderenti allo standard Usb), i nuovi sviluppatori di satelliti hanno potuto accedere a dimensioni, pesi, interfacce standard per i loro piccoli satelliti. La cintura nera in questa materia è lo standard CubeSat, nato in California alla fine degli anni ’90. Nonostante il fascino che le geometrie più futuristiche avrebbero potuto esercitare sul grande pubblico, il CubeSat non è altro che un satellite cubico con 10 cm di lato e 1,3 kg di massa. Un litro di volume, 10 centimetri di lato, poco più di un chilo a disposizione. Una semplificazione enorme delle geometrie che ha fatto sì che la crescita dei CubeSat assomigli ad una curva esponenziale, con quasi 1.500 satelliti lanciati dal primo volo del 2003.

Un quadro che punta ad un coinvolgimento di nuovi protagonisti che sia il più ampio possibile: se la iniziale vocazione dei CubeSat era quella dell’educazione, dove giovani studenti universitari potevano toccare con mano la loro prima missione spaziale già negli anni della formazione come ingegneri o scienziati, l’enorme diffusione dello standard è dovuta alla chance di riadattarli per applicazioni di ricerca o commerciali: giocano a loro favore le piccole dimensioni, la forzata semplificazione dei progetti che portano a rapidi cicli di sviluppo (e quindi a dimostrazioni tecnologiche in orbita completate in poco tempo) e ad una grande modularità che favorisce la realizzazione di costellazioni di CubeSat identici con costi relativamente contenuti. L’esempio virtuoso è offerto da aziende come Planet e Spire, piccoli colossi in grado di riadattare lo standard CubeSat a costellazioni di centinaia di satelliti, in grado di fornire servizi di monitoraggio con banche dati di dimensioni mai raggiunte nella storia dell’esplorazione spaziale.

La fioritura di questo “piccolo” mondo satellitare ha anche regalato un più facile accesso allo spazio a tutti: moltissime nazioni, spesso con una limitata esperienza nel campo spaziale, hanno scelto i CubeSat per costruire e lanciare il loro primo satellite. Spesso non senza forti part-nerships internazionali: si pensi a programmi come il KiboCube delle Nazioni Unite e dell’agenzia spaziale giapponese Jaxa, nato con la specifica missione di offrire opportunità di lancio a CubeSat sviluppati da Paesi in via di sviluppo (tra i cui beneficiari c’è 1Kuns-pf, il primo nano-satellite del Kenya, sviluppato in collaborazione con l’Università La Sapienza di Roma e supportato dall’A si , a cui chi scrive ha avuto la fortuna di collaborare qualche anno fa), o al programma Birds, nato al Kyushu Institute of Technology in Giappone e responsabile, tra gli altri, del lancio dei primi satelliti in assoluto di Paesi come il Nepal, il Bhutan, lo Sri Lanka o il Paraguay. Tutti programmi che mirano ad un rafforzamento della presenza in questa nuova economia spaziale di tutte le nazioni del mondo, prime fra loro quelle che hanno mosso i primi passi in orbita grazie ai piccoli satelliti.

Il coinvolgimento di tutti mira ad obiettivi sempre più distanti: la frontiera dei piccoli satelliti è quella di “accompagnare” i prossimi viaggi sulla Luna e su Marte, con il futuro programma Artemis e i prossimi progetti per l’esplorazione marziana. Dopo la sperimentazione di Mar co , il primo CubeSat su Marte, sviluppato dalla Nasa, numerosissime dimostrazioni tecnologiche per l’esplorazione fuori dall’orbita terrestre sono ad oggi affidate ai piccoli satelliti e ai CubeSat: piccole missioni che contribuiranno in modo determinante all’esplorazione spaziale “in grande” del nostro domani, rendendo la via verso le stelle un po’ più facile di quel che era solo qualche anno fa.

di Paolo Marzioli