· Città del Vaticano ·

A colloquio con Gian Carlo Blangiardo presidente dell’Istat

In Italia nascite al minimo, ma la colpa non è del covid

 In Italia nascite al minimo, ma la colpa non è del covid  QUO-149
05 luglio 2021

I nuovi piani di sviluppo per la ripresa dopo la pandemia devono tenere nella giusta considerazione il fatto che è nel benessere delle persone e delle famiglie che si misura il grado di sviluppo di un Paese. Lo sottolinea il presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo, in questa intervista.

Presidente, da anni l’Italia assiste a un calo demografico sempre crescente, che la pandemia ha accelerato e aggravato. Che ruolo ha la famiglia rispetto a questa emergenza?

La famiglia è “il luogo naturale” presso cui avviene la produzione – ma anche la formazione — del capitale umano di un Paese. Il fatto che le nascite siano crollate raggiungendo livelli mai visti nella nostra storia, sta chiaramente a testimoniare che le famiglie italiane spesso non ce la fanno a svolgere quello che è il loro compito naturale. E quando dico che non ci riescono non significa che non lo vogliano: qui sta il messaggio forte alla società e alla politica. Tengo a precisare che la cifra record (di minimo) dei 404 mila nati del 2020 non è dovuto, come qualcuno crede, a un effetto della pandemia. Quest’ultima ha influito unicamente sul calo delle nascite di dicembre (-10,8%), e in parte di novembre, riconducibile al minor numero di gravidanze avviate nove mesi prima, durante l’ondata pandemica primaverile. La verità è che il crollo dei nati è strutturale, e avviene anno dopo anno, nonostante persista costantemente un desiderio di maternità e paternità che si esprime con valori ben al di sopra del numero medio dei figli per donna che risulta dalle statistiche. Si vorrebbero in media 2,1 figli, ma di fatto se ne mettono al mondo — anche senza condizionamenti da covid-19 — non più di 1,3.

L’intensità e la problematicità che deriva dalla crisi demografica non riguarda solo l’Italia, ma interessa la maggior parte dei Paesi sviluppati. Alcuni di questi hanno preso provvedimenti raggiungendo buoni risultati. È dunque possibile provare ad invertire la rotta? In che modo?

È certamente doveroso provarci ed è confortante scoprire che ci si può anche riuscire. Limitandoci al panorama europeo, ci sono Paesi che tradizionalmente hanno avuto livelli di fecondità — e quindi una frequenza di nascite — largamente superiori ai nostri. La Francia è un esempio classico: ha pochi abitanti più di noi, ma registra quasi il doppio dei nostri nati e il suo numero medio di figli per donna — pur riducendosi — resta non molto distante da quel limite di due che garantirebbe il ricambio generazionale. Ma la Francia è un Paese che ha sempre dimostrato grande attenzione alla natalità. Ha norme fiscali a favore delle famiglie con figli e concede con più generosità contributi economici e supporti all’attività di cura e di conciliazione tra maternità e lavoro. Vale tuttavia la pena di segnalare che anche altri Paesi, con una bassissima fecondità simile alla nostra, hanno recentemente avviato inversioni di tendenza, grazie ad interventi che mettono al centro i bisogni delle famiglie. Il caso più eclatante è quello della Germania, ma la stessa cosa si osserva anche in Slovacchia, Polonia, Ungheria, Romania.

L’emergenza sanitaria ha aggravato e ridisegnato anche i dati relativi alla povertà. L’aggravarsi delle diseguaglianze e dell’incertezza economica quanto inciderà sulla vita e sulle scelte delle famiglie? 

In questo momento penso sia difficile delineare scenari che vadano oltre il brevissimo periodo. Diciamo che abbiamo incassato il colpo, ma anche che stiamo provando a riparare i danni. In effetti qualche cosa di buono si comincia a vedere. In un tale contesto le famiglie sono in una fase critica, sospese tra l’incertezza e il desiderio di normalità. Dando per scontato — oltre che per fortemente auspicato — il pieno controllo degli aspetti sanitari, in futuro molto dipenderà da come si riattiveranno i settori più critici dell’economia e da quale sarà la tenuta — anche se doverosamente tutelata — del mercato del lavoro. Il bilancio del 2020 si è chiuso con un aumento della povertà assoluta sia per le famiglie (dal 6,4% al 7,7%) che per gli individui (dal 7,7% al 9,4%). Ancora una volta, la presenza di figli, in particolare di più figli, si è rivelata come uno dei fattori di maggior rischio per la caduta in povertà. L’auspicio è che i nuovi piani di sviluppo sappiano riservare la giusta attenzione all’universo delle persone e delle famiglie, perché non va dimenticato che è nel loro benessere che si misura il grado di sviluppo di un Paese.