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Sguardi Diversi

I monasteri non sono incurabili

 I monasteri non sono incurabili  DCM-009
02 ottobre 2021

L’esperienza delle clarisse cappuccine, dette Trentatré, di Napoli


Quando busso al citofono di via Pisanelli n. 8 non sono sola: tremila anni di storia camminano notte e giorno lungo questa strada, che è il cuore del cuore di Napoli, il terzo decumano, quello che i turisti non frequentano e che dal Medio Evo è chiamato l’Anticaglia.

Del nome ha colpa il grande anfiteatro dove cantò Nerone, inglobato dalle curve dei palazzi, i cui archi ancora separano finestre in via Pisanelli, la cui cavea appare sotto un’abitazione senza finestre a livello della strada, un tipico basso: la padrona di casa apre ai visitatori, spostando il letto per farli scendere nel tempo dell’impero romano, nel quartiere dove gli alessandrini facevano gare di corsa con le fiaccole.

Ma non sono solo le tracce greche e romane che rendono l’Anticaglia preziosa: qui è stratificata la millenaria storia sacra della città. Negli stessi luoghi dove sorgevano i templi di Caponapoli, dall’epoca del Ducato bizantino fino al diciannovesimo secolo, lungo questa strada che taglia l’acropoli di Partenope si sono sovrapposti monasteri e chiese, in epoca angioina, aragonese, spagnola. Un cavaliere aragonese in posa aulica spia i passanti nel cortile di Palazzo Bonifacio, fra i panni stesi e un boiler. Poco più avanti c’è la casa del poeta Torquato Tasso.

E qui, in via Pisanelli 8, c’è l’ultimo monastero di clausura di Napoli, rimasto intatto dalla fondazione nel Cinquecento voluta dalla Venerabile Maria Lorenza Longo, signora catalana miracolata dalla Madonna di Loreto, per la quale è in corso la causa di beatificazione. Siamo a Santa Maria di Gerusalemme, ovvero il Monastero detto delle Trentatré, dove la regola impone che mai più di trentatré siano le sorelle ospitate, una per ogni anno di Cristo. La storia di Maria Lorenza Longo è celebre, perché Napoli (e l’Europa) le devono il primo ospedale pubblico aperto anche ai poveri della Storia, gli Incurabili, polo e faro di scienza medica per tre secoli, sede di una sontuosa farmacia settecentesca e di un museo delle arti sanitarie. Ci volle una donna per pensare a un ospedale che non facesse distinzione fra ricchi e poveri, come, tre secoli dopo, ci volle un’altra donna, Teresa Filangieri, per immaginare un ospedale dedicato solo ai bambini, l’attuale Santobono, il più antico ospedale pediatrico del mondo.

Sono qui a citofonare alle Clarisse Cappuccine delle Trentatré proprio perché, se sono le donne a compiere grandi opere, sempre sono le donne a non essere riconosciute o ricompensate per le proprie intuizioni o vocazioni: ad esempio, le suore non sono sostenute economicamente dalla Chiesa, non ricevono incentivi, a maggior ragione se fanno professione di assoluta povertà come le Clarisse Cappuccine della venerabile Longo.

Come fa un monastero del Cinquecento, con tutti i costi di manutenzione che ha, a sostenersi? Come fanno le Trentatré, che da molti anni sono assai meno di numero, a mantenersi? Sono venuta a chiederlo alla badessa, suor Rosa Lupoli.

Quando il portone di metallo scatta, sale con me anche una fisioterapista, diretta alle stanze delle sorelle più anziane. Mi supera all’altezza del parlatorio, mentre una sorridente sorella mi passa una chiave così che io mi apra una porticina ed entri in una stanza con finestra rinascimentale sul giardino, austera e semplicissima, dove aspetto suor Rosa, il parlatorio.

Oggi alcuni studiosi sono venuti a sorpresa a fotografare la testa di Maria Longo, reliquia preziosa del Monastero, così ho il tempo di godermi un po’ il vento che spira fra le mura antiche in questa bollente giornata d’estate. Ma un’altra ventata deve arrivare, con suor Rosa, che mi è quasi coetanea e sembra una bambina, potente di intelligenza, allegria ed entusiasmo. Anticipo che con suor Rosa siamo rimaste a parlare ben oltre l’intervista, condividendo ricordi e passioni, ma la prima domanda è stata fondamentale: come ce la fate? Come si sopravvive, con quali risorse economiche si tiene in piedi un monastero?

L’indipendenza totale dei monasteri femminili è da sempre data per scontata, sicché nel mondo laico la notizia suona addirittura nuova, sorprendente: il caso delle Trentatré è ancor più specifico, poiché la povertà personale è condizione insindacabile per la professione solenne. Le clarisse cappuccine entrano in clausura rinunziando davanti al notaio, ben due volte, a qualsiasi bene personale, eredità familiare e a ogni possibile eredità dovessero ricevere in futuro da terzi. L’origine clariana dell’ordine stabilisce un’autentica povertà: si deve vivere con la Provvidenza, giorno per giorno, quel che si riceve in dono gratuito. E basta.

Dunque, nessuna proprietà, solo donazioni ma non continuative e, al limite, lavoro artigianale: in altri tempi il monastero era celebre per le figure in cera e per la produzione di ricami in seta sui paramenti religiosi ma oggi, con un ridottissimo numero di sorelle e l’età anagrafica elevata, queste attività sono scomparse.

Quindi, come si mangia, come si acquistano medicinali? E le spese dell’antico fabbricato? Perché anche quelle ricadono completamente sulle ospiti del monastero: di recente, racconta suor Rosa, si sono rotte le tubature. E con grande fatica si è ottenuto l’allaccio del gas di città per il riscaldamento. Come pagare queste spese?

Per altro, la sovrintendenza fa piani e disegni, nel rispetto dell’antichità e della storicità del bene, che con l’Unità d’Italia è diventato proprietà dello Stato: ma, a parte le verifiche, non ci mette un euro. Dunque, le Trentatré, oggi rimaste in otto, vivono con offerte volontarie che arrivano a Natale o a Pasqua. Alcune delle sorelle che erano presenti nel monastero negli anni successivi al terremoto del 1980 hanno goduto di una risicatissima pensione sociale, poi interrottasi.

Fra i vincoli lasciati dalla venerabile Maria Longo, toccava agli Incurabili occuparsi delle Trentatré ma in realtà, racconta suor Rosa, l’ospedale ha sempre tentato di liberarsi dell’impegno e, contemporaneamente, di appropriarsi di alcune parti del monastero: solo di recente è avvenuto il recupero dello storico dispensario antitubercolare e del refettorio affrescato e si spera presto anche di eliminare il muro edificato nel mezzo del giardino claustrale.

Suor Rosa, da quando è arrivata trenta anni fa, non si è persa d’animo e ha poco alla volta recuperato il refettorio affrescato del convento, lo ha affidato a una Onlus, l’Atrio delle Trentatré, che ospita in cambio di libere donazioni concerti, convegni e rassegne culturali, ma non mi nasconde che ci sono state volte in cui hanno accettato i pasti della Caritas.

Del resto le vicende di ostracismo, pregiudizio e abbandono che riguardano la monacazione femminile sono antiche e includono anche una visione unilaterale e decisamente antifemminista dei fatti: a parlare di monacazione si pensa soprattutto a quella forzata, quella che nei secoli ha prodotto l’immagine della manzoniana monaca di Monza, mentre è invisibile, dimenticata, cancellata, l’azione violenta dell’abolizione degli ordini post unitaria, che svuotò, con la forza, i monasteri femminili di tutta Italia, a Napoli numerosissimi.

Migliaia erano le monache di ogni ordine in città: la città deve loro anche solo la tradizione pasticcera delle sfogliate e delle santarosa. Ordini antichissimi, chiese curate e affollatissime. Con l’Unità, replica dell’azione analoga bonapartista mezzo secolo prima, i monasteri napoletani furono svuotati, le suore deportate, i beni confiscati. Tutto diventava dello Stato: e ce n’era ragione, data la ricchezza d’arte di alcuni di questi luoghi, come Santa Patrizia, monastero millennario in san Gregorio Armeno, o Santa Chiara, fulcro della religiosità congiunta al potere angioino e aragonese. Di questa gigantesca spoliazione e della violenza inflitta alle suore costrette a rientrare nel mondo senza alcun sostegno economico, l’unica ad aver raccontato è Matilde Serao.

S’intitola Suor Giovanna della Croce il romanzo del 1901, straordinario affresco dello svuotamento del convento di Suor Orsola, ritratto della paura e dell’incomprensione delle suore di clausura messe in strada da un giorno all’altro, spesso prive di una famiglia cui tornare, estromesse dalla dimensione di ascesi scelta con profondo amore e desiderio, sottratte a una comunità, la nuova vera famiglia d’elezione, gettate nel panico dalla perdita di ogni sostegno economico. Se l’anziana badessa del monastero torna, sia pur con dolore e confusione, alla sua ricca famiglia d’origine, a suor Giovanna toccano fame, umiliazioni, inganni e violenze. Alla povertà materiale si unisce la povertà umana che trova nelle strade e nelle case: una sorella e un nipote che la imbrogliano, derubano e scacciano, l’umiliazione di vendere qualche ricamo a una prostituta, l’assistenza a una puerpera moribonda, i servizi in casa di un giudice in lite con la moglie.

L’angoscia profonda che comunica il romanzo di Matilde Serao diventa un fantasma tangibile nel ventilato parlatorio, chiacchierando con suor Rosa, specie quando mi racconta la sua storia personale: ischitana, una madre molto devota e una giovinezza lontanissima dalla Chiesa, suor Rosa è stata una pallavolista professionista, dai tredici ai ventitré anni, ha giocato in serie B, si è laureata in Lettere Moderne all’Istituto Orientale in lettere. Poi un incidente le impedisce di proseguire con lo sport e le viene il dubbio di aver lasciato in sospeso una questione fra lei e Dio. Inizia a seguire e a studiare in parrocchia; si iscrive, unica donna, alla facoltà di Teologia napoletana. Ma è la decisione di una sua amica, che nemmeno frequenta tanto, a farle scoprire le Trentatré: il 3 febbraio 1990 con molti altri ischitani accompagna Angela, che ha scelto la clausura, alla ruota del monastero. Le sembra impossibile che questo mondo possa interessarla o attrarla: vede l’amica entrare, assiste alla disperazione dei genitori di Angela, quindi s’informa. Parla lungamente alla ruota con suor Chiara, cui chiede notizie e chiarimenti.

E così, in pochi mesi, tutto cambia: suor Rosa entrerà nel monastero il 5 maggio dello stesso anno, per vederne uscire dopo sei anni Angela, l’amica, e restarci invece lei, per trenta, felicissimi anni. Non è un percorso indolore: deve convincere il proprio parroco, far superare lo choc ai propri genitori: non è scontato che le persone care accettino una scelta tanto radicale, che include, appunto, la rinuncia ad ogni sicurezza economica (la sicurezza, finta divinità del nostro tempo).

Ma è da questo spazio così sereno, lieto, non ignaro del mondo (suor Rosa tifa Napoli, è lei che ha deciso ci dovesse essere un sito aggiornato, una presenza su Facebook e una relazione più intensa con la città, anche grazie alla Onlus che organizza visite guidate negli spazi agibili delle Trentatré) che viene la certezza di una realtà altra.

Chiedo a suor Rosa chi si presenta oggi a quella ruota dove lei si affacciò a domandare, chi pensa alla clausura: vengono spesso donne adulte, quarantenni, deluse dalla vita, che poi rinunciano, che non comprendono come la clausura sia un mezzo e non un voto.

Ormai, mi dice, si comincia finalmente a parlare di istituti consacrati in direzione mista, maschile e femminile insieme, anche se si fatica a dialogare con la parte maschile della Chiesa, poco interessata, ignara del mondo monacale femminile.

Esco da Santa Maria in Gerusalemme con l’impressione di vedere ancor più muta la bellissima Napoli antica, privata di altre voci, di altre testimonianze, di nuove verità al femminile. Sembra impossibile che anche qui, proprio da qui nasca la disparità che ancora combattiamo e che riguarda le donne. Eppure, mi pare, proprio da qui vengono le vere novità, da questa clausura sopravvissuta all’Unità d’Italia perché era così povera che non interessava le tasche di nessuno.

Una povertà che rappresenta la più vera e antica ricchezza e della cui esistenza dovremmo preoccuparci tutti un po’ di più.

di Antonella Cilento


L’autrice

Antonella Cilento (Napoli) finalista Premio Strega nel 2014 con Lisario o il piacere infinito delle donne (Mondadori), ha pubblicato romanzi, raccolte di racconti, reportage storici.

Dirige dal 1993 una delle più antiche scuole di scrittura italiane, Lalineascritta - Laboratori di Scrittura (www.lalineascritta.it) e coordina il primo master di scrittura  e editoria del Sud Italia, Sema, con Università Suor Orsola Benincasa.

La caffettiera di carta (Bompiani) raccoglie i suoi quasi 30 anni di lezioni di scrittura.  Dirige la rassegna di letteratura internazionale Strane Coppie.

Scrive per il teatro e La Repubblica - Napoli.