· Città del Vaticano ·

Nell’esperienza del cardinale Giacomo Biffi

La sfida
di comunicare Cristo

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30 giugno 2021

I semi del Vangelo sono sempre fertili, con gusti e sapori sempre originali e nuovi. Anche perché il Vangelo è un fatto, un evento, una presenza che si rivela nel tempo, che non smette di incarnarsi e illuminare la storia. Il cristianesimo non è una religione ma un fatto, un avvenimento. Dobbiamo chiederci cosa succede quando, al contrario, viene ridotto a un’etica, per quanto importante e rigorosa, a morale, attenta alla lettera ma dimentica dello spirito e della mente. Il cardinale Biffi ci aiuta, anche con il suo umorismo e l’ironia pungente, a non adagiarci mai in un’applicazione codificata, pedissequa del cristianesimo, senza che questo diventi “fatto”. Il vero rischio è, in definitiva, un Cristo ridotto a narcotico, a tranquillante per il benessere individuale, perfino a principio ispiratore per altri dogmatismi, svuotato della forza esigente, radicale, dell’incontro con un fatto.

I cristiani che Biffi irride sono quelli che cercano di piacere alla mentalità comune, fosse pure alla moda, e il consenso facile. Egli non può accettare che si scolorisca la fede con la giustificazione del dialogo, nascondendo le convinzioni in cambio di un’accettazione, spesso interessata. Anche perché «non si tratta di essere più credibili. Dobbiamo diventare più credenti». Soprattutto se si scambia l’essere credibili con un facile consenso, se si aggiusta la propria fede invece di viverla e comunicarla, se si compiacciono gli interlocutori invece di costruire un dialogo vero che richiede sempre, ovviamente, di essere sé stessi, non quello che gli altri desiderano. Certo, di esserlo attraendo, costruendo ponti, perché siamo chiamati ad andare, non ad aspettare, a toccare il cuore con il “fatto” che è la nostra stessa umanità, non a distribuire verità restando a distanza, con la scusa di non contaminarsi.

Gesù parlava a peccatori e sicuramente non aspettava che cambiassero, perché cambiavano proprio per la Sua misericordia e vicinanza. Altrimenti sappiamo quanto è facile chiudersi in un mondo autoreferenziale, che finisce per sentirsi non capito quando non si vuole spiegare, autosufficiente quando è chiamato a seminare ovunque e per tutti, dimentico che è Lui il proprietario della lingua materna di ogni interlocutore. La mediocrità e la povertà culturale impoveriscono la comunicazione del Vangelo che diventa scudo e non seme. Essere lievito non è affatto omologarsi alla pasta, ma fermento di questa! Biffi cerca cristiani credenti e con l’intelligenza dei piccoli, perché preoccupato per un mondo che perde le sue radici e per una Chiesa che si mondanizza. La sfida è proprio questa: essere sé stessi e parlare a tutti, tutti, da credenti che vanno fino agli estremi confini della terra. Papa Francesco direbbe «le periferie». Non si omette di parlare per non ferire, ma si cercano le categorie tali da fare comprendere il mistero di Dio. Ecco la prospettiva che ispira tutte le risposte del cardinale. La scelta più utile e più urgente che possiamo fare per l’umanità è quella di far conoscere Cristo e il suo annuncio di salvezza. «Se l’uomo è sempre un’iniziale immagine di Cristo, ogni vera e onesta antropologia è anche un’iniziale cristologia. Chi con animo retto e sincero contempla l’uomo e lo ama, conosce un po’ del mistero dell’uomo Dio, si dirige verso il Signore Gesù, anche se non lo sa esplicitamente».

L’umanità si è orgogliosamente laicizzata, tanto da ritenere Dio un optional irrilevante e fuori moda, e siamo messi a confronto con un neopaganesimo. Non si tratta di condannare, ma di prendere atto, anche per non farsi delle illusioni che ingannano e poi alla fine inevitabilmente deludono. La domanda è poi sempre quella di capire la sofferenza, la fame, la sete e, con attenzione e vicinanza, ascoltare e rispondere. Non serve la scorciatoia di una «religione dei valori» o di «una religiosità senza religione». Non si comunica nulla. La sfida è incontrare e comunicare la verità, cioè Cristo. Certo, sappiamo bene che dialogare non significa affatto necessariamente compiacere, rischio che rimane per tutti e sempre, come se essere alteri e distanti garantisse la difesa della dottrina o una sua giusta applicazione!

Mi sembra che i due rischi che Papa Francesco ha indicato come quelli più pericolosi per i cristiani siano così simili a quelli descritti in tanti modi dal cardinale Biffi. Uno è il fascino dello gnosticismo, una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti. Si dialoga, ma ci si perde e davvero non si sa più chi si è, e si tradisce il senso vero del dialogo. L’altro è il neopelagianesimo autoreferenziale e prometeico di coloro che, in definitiva, fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli a un certo stile cattolico proprio del passato. È una presunta sicurezza dottrinale o disciplinare che dà luogo a un elitarismo narcisista e autoritario dove, invece di evangelizzare, si analizzano e si classificano gli altri e, invece di facilitare l’accesso alla grazia, si consumano le energie nel controllare. In entrambi i casi, né Gesù Cristo né gli altri interessano veramente.

Biffi diceva che «ogni bellezza, da chiunque sia espressa, viene dallo Spirito Santo, e quindi conduce anche a Cristo a prescindere dalla consapevolezza dell’artista». «Se è un servizio alla bellezza io son sicuro che è un servizio a Cristo. Quindi l’artista, anche se è ateo dal punto di vista suo personale, anche se è dubbioso (che forse è la posizione più comune), in realtà si pone in connessione con Cristo proprio attraverso il suo servizio all’arte». Ecco la bellezza che dobbiamo scoprire non solo nella grandezza dell’ingegno umano, ma in quel bello nascosto in ogni persona che incontriamo e che ci è affidata perché nostro prossimo.

di Matteo Maria Zuppi