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I racconti sul tema dell’attesa nati da un laboratorio di Giuliana Nuvoli nel carcere di Opera

Voglia di futuro

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26 giugno 2021

Giuliana Nuvoli, professoressa emerita di Letteratura italiana alla Statale di Milano e critica letteraria, ha tenuto un laboratorio di scrittura creativa nel carcere di Opera in collaborazione con gli studenti dell’università. Il risultato è stato un libro di ventinove racconti, L’attesa (Edizioni Stampa 2009), pubblicato nel 2019.

«Fin dall’inizio del laboratorio, il libro è stato pensato come un coro di voci tutte alla pari» racconta Nuvoli. ‒ «Il percorso intrapreso si è rivelato armonioso: tutto è cominciato nel rispetto delle regole di distanza, dal momento che molti tra gli studenti erano ragazze, mentre i detenuti erano tutti uomini, alcuni condannati a pene detentive di 30-35 anni. In teoria avrebbero potuto esserci molti problemi.

Nel tempo, però, tra loro si è creato un dialogo che alla fine si è trasformato anche in una vicinanza fisica assolutamente straordinaria e, ripeto, rispettosa».

Il tema scelto è stato quello dell’attesa. «Tutti gli esseri umani sono in attesa. In attesa di finire la vita o delle cose che accadono; in attesa di quello che è lontano o sta per accadere, del bene, del male». Un sentimento che accomuna i giovani studenti, impazienti di scoprire la vita, e i detenuti, che nella detenzione coltivano la speranza. I racconti sono stati pubblicati con i nomi in ordine alfabetico, senza alcuna distinzione e, nonostante le differenze, disegnano una comune radice: la vita porta in direzioni diverse, si può essere liberi o rinchiusi, ma alla fine le persone sono accomunate da più di quanto non si creda. C’erano ragazzi e ragazze, detenuti giovani e adulti, provenienti da ogni parte del Mediterraneo e del mondo, e tutti hanno interagito insieme in armonia.

Tra le maglie dei racconti emerge sempre un pezzo della loro storia personale. «Ovviamente negli scritti degli “studenti ristretti” la componente autobiografica è più forte, perché il loro orizzonte rimane chiuso. Sanno di dover stare nel carcere per un determinato tempo. Per loro l’io riempiva quasi tutto lo spazio presente e futuro». Sono stati totalmente liberi di esprimersi come individui. Esisteva una sola regola: non fare cenno ai loro reati, né alla pena comminata. «I pochi giovanissimi tremavano, fragili, di speranza — scrive Nuvoli nell’introduzione — i più, adulti, parlavano come chiusi in una corazza. Per tutti, però, vi era la stessa luce, in fondo: la famiglia. Madri, mogli, figli».

Per gli studenti della Statale la cosa è stata invece un po’ diversa. A 19-26 anni ci si immagina il futuro con più libertà «con più possibilità di quanto ovviamente non si possa fare chiusi tra quattro mura, ma la componente autobiografica è presente, potente, in tutti i racconti». Eppure i tempi che viviamo non sono facili neppure per loro: l’incertezza sempre latente, la precarietà, la possibilità di non poter immaginare un futuro, di crearsi una famiglia li fa sentire in gabbia. «In realtà — osserva Nuvoli — non esiste un solo individuo a questo mondo, ieri come oggi, che possa dire di non sentirsi prigioniero di una gabbia più o meno visibile, di non essere condizionato dalle regole, dai pregiudizi, dagli obblighi e dai doveri, dalla necessità di patteggiamenti». Una percezione che nel tempo di pandemia ha riguardato tutti. Siamo stati quasi nella stessa situazione, tutti un po’ rinchiusi. E per questo motivo sembra che questo libro abbia guardato lontano, catturando nell’aria il presagio di qualcosa che già c’era.

«L’importante è pensare che le gabbie abbiano pareti di cristallo e permettano di guardare fuori, che non abbiano pareti di piombo. Sentirsi completamente liberi è una presunzione, una follia, paragonabile alla hybris, all’arroganza di Ulisse che, secondo Dante, precipita nel gorgo e muore quando passa le antiche e invalicabili Colonne d’Ercole. La vera libertà ce la portiamo dentro. La vita è fatta di affetti ed emozioni e questi non hanno gabbie. Dovremmo imparare a pensare a relazioni più leggere, non condizionate dall’economia, dal denaro, dal successo, dai bisogni materiali. La vita è bella se si prende così, come viene», aggiunge la professoressa.

Un altro punto di contatto tra tutti gli autori dei racconti è «la voglia di futuro, di camminare col corpo teso in avanti e lasciarsi indietro rabbia e paura. In realtà, in ognuno di loro c’è il bisogno di essere amati», si legge nella quarta di copertina del libro.

«Esiste una virtù primaria comune a tutti, laici e credenti, cattolici e non, che è una virtù civile: il perdono. Se ci si lascia trattenere a terra dalla zavorra della rabbia, della paura, dai sentimenti di vendetta, non ci si libera. Se non impariamo a buttarci dietro le spalle tutto il dolore che ci possono aver procurato, le angherie e le offese, non abbiamo scampo, non viviamo».

Nel celebre monologo del terzo atto, Amleto dice che «la coscienza fa vili» e impedisce di tentare di sfuggire ai mali andando incontro alla morte, forse anche scegliendo il suicidio.

La paura di ciò che attende al di là della vita rende sopportabile il male quotidiano. «In queste parole — prosegue Nuvoli — manca la speranza, che è quella che spinge a vivere. Elpis o Spes, come la chiamavano i greci e i romani, nell’iconografia antica è raffigurata come una fanciulla che avanza verso il futuro in punta di piedi. La speranza è l’unica a rimanere in fondo al vaso di Pandora, quando tutti i mali sono usciti». D’altra parte la speranza è per i cristiani una virtù teologale, ricordata di continuo da Papa Francesco che la definisce «un’ancora che noi abbiamo dall’altra parte: noi, aggrappati alla corda, ci sosteniamo» e che chiama «la più piccola virtù ma la più forte».

La speranza — conclude Giuliana Nuvoli — «tiene in vita nell’attesa, ma nulla è possibile se non scendiamo a patti con noi stessi. È tutto questo è possibile solo se impariamo a perdonare gli altri e noi stessi».

di Maria Milvia Morciano