Per l’ultima volta, davanti ai confratelli che si erano riuniti per ascoltarlo, il morente ha modo di approfondire i temi cruciali della vita e del destino dell’uomo. Il grande capitolo della morte dello starec Zosima chiude la seconda parte de I fratelli Karamazov. Tra i suoi ricordi personali e gli appunti riportati per iscritto sotto forma di un diario spirituale, questo finale è articolato su una coppia di sostantivi in apparenza simili tra di loro: isolamento e solitudine. A chiarire il significato che si può assegnare ad essi è da una parte un «visitatore misterioso» e dall’altra lo stesso monaco.
Il primo infatti spiega la sua teoria dell’«isolamento umano» tipico dei tempi moderni, in cui si tende a separarsi dagli altri «come in tante parti», in cui ciascuno ha imparato «a non confidare che in se stesso e a scindersi come unità dal tutto», avendo rinunciato a credere «nell’aiuto del prossimo, negli uomini e nell’umanità». Parallelamente a questo isolamento morale già in precedenza, Paisio, uno dei monaci presenti al capezzale dello starec, aveva rilevato come la parcellizzazione dei saperi nella modernità generi un fenomeno simile a quello citato dell’isolamento delle coscienze. Le scienze «hanno analizzato le singole parti e hanno invece perduto di vista l’insieme», quell’uno che non viene più colto dal loro sguardo settoriale ma che «continua a stare innanzi ai loro occhi incrollabile come prima», così che, lasciano presagire sia l’ospite che il monaco, sicuramente verrà il tempo in cui tanto l’unità e la divinità del mondo torneranno nuovamente a essere percepiti, quanto gli uomini troveranno forze nuove per uscire «dal loro terribile isolamento e tutti comprenderanno in una volta quanto fosse innaturale la loro reciproca separazione».
Tocca invece allo starec Zosima nelle sue ultime ore di vita spiegare il concetto di solitudine facendo riferimento al solitario per eccellenza, al monaco, a colui che fin nel nome porta l’impronta di un destino. Egli riprende il discorso sull’isolamento umano del «visitatore misterioso» e lo centra su un malinteso senso della libertà. Nel mondo moderno infatti la libertà è concepita solo come «moltiplicazione e appagamento dei bisogni». Si dice, fa notare lo starec, che sia un nostro diritto averne e soddisfarli e in questa dinamica compensativa si consuma tutta la nostra libertà. Così il mondo dello spirito, «la metà superiore dell’essere umano», viene completamente ripudiato e bandito e non c’è da stupirsi se «gli uomini, in luogo della libertà, abbiano trovato la servitù e, invece di servire la causa della fratellanza e dell’unione umana siano caduti, al contrario, nella disunione e nell’isolamento». Il monaco invece può vantare un’esperienza diversa, quella della libertà interiore. Egli infatti si è liberato di questi «bisogni superflui e inutili», si è affrancato «dalla tirannia delle cose e delle abitudini» e «con l’obbedienza e l’aiuto di Dio» ha raggiunto «la libertà dello spirito».
Contrariamente alle apparenze la solitudine del monaco — l’essersi chiuso «per far penitenza tra le mura di un monastero», così gli viene rimproverato — non è isolamento: «Un monaco, diceva Evagrio Pontico, uno dei più importanti padri del deserto egiziano, è uno che, separato da tutti, è unito a tutti» (De oratione 124, Patrologia Graeca 79,1193). È uno cioè che, proprio per aver saputo rinunciare a quei bisogni che finiscono per isolare e rendere come monadi quelli che vivono nel mondo, riesce a rompere l’isolamento e ad entrare in comunicazione e in relazione con tutti. Ovviamente questa comunicazione è una comunicazione di comunione, basata cioè sull’essenziale della vita non sugli stimoli mondani che accendono solo bisogni istantanei. Ma non è neanche questo che fa la differenza: in ciò anzi potrebbe annidarsi «l’orgoglio satanico» di sentirsi superiori che finirebbe per contraddire l’essenza stessa del monaco. Il monaco infatti sa «di non essere più santo degli altri uomini… per essersi rinchiuso chiuso tra quattro mura». Anzi, ha piena coscienza dei suoi limiti come e più di tutti gli altri uomini: «Chiunque è venuto qui, per il solo fatto di esserci venuto, ha riconosciuto in se stesso di essere peggiore di ogni laico». Se la sua scelta fosse basata solo sulla rinuncia, nel sapersi privare di qualcosa o anche di tutto, ciò lo consegnerebbe a un isolamento più grande di chi ha invece preferito il mondo e le sue illusioni. Il monaco è in relazione con il mondo perché alla logica del bisogno, ha sostituito il principio del desiderio di Dio, della ricerca di Dio, del quaerere Deum. L’abba Alonio, un altro padre del deserto egiziano, diceva che «se un uomo non dice nel suo cuore: “Io solo e Dio ci siamo al mondo”, non avrà mai pace» (Apophthegmata Patrum, Alonio 1, Patrologia Graeca 65,133). Perciò la solitudine del monaco non è solo un fatto formale, quasi lo stoicismo di chi ha saputo rinunciare a qualcosa, la sua solitudine è essenziale perché è in Dio, cercato e desiderato, vissuto nella gioia e nella fatica di ogni giorno, che avviene l’incontro del monaco con tutti.
Tuttavia il congedo dal mondo di Zosima riserva anche un altro ulteriore e definitivo passaggio, quello che lega il monaco a Cristo. In una nota del suo diario spirituale infatti sottolinea che l’apertura a Dio dei monaci è sempre collegata alla figura di Gesù. Nella loro solitudine infatti conservano «ancora, stupenda e intatta, nella purezza della verità divina, l’immagine di Cristo, ricevuta dai più antichi padri (…) e la riveleranno al mondo scosso nella sua fede». In questo finale è lo stesso Zosima, che agli occhi del giovane Aljoša era apparso all’inizio del romanzo come un «custode della verità», a rendere chiaro che è l’immagine di Cristo la verità che il monaco conserva nel suo cuore e, proprio guardando a questa immagine, Zosima può dettare le sue ultime istruzioni: «Non cercar mai ricompensa, perché grande è già quella che hai su questa terra (…) Non temere i grandi e i potenti, ma sii sempre saggio e nobile. Conosci la misura, conosci i limiti (…) Rimanendo in solitudine prega (…) Ama tutti, ama ogni cosa (…) L’inferno è la sofferenza di non potere amare più».
È questa la regola che il vecchio monaco ha appreso alla scuola delle beatitudini di Gesù e desidera trasmettere prima della fine, perché altri la possano fare propria e tramandarla a terzi. Ma neppure ciò basta e nei suoi ultimi attimi di vita vuole fare un altro e più importante lascito che ha l’effetto di trasformare la sua istruzione in un vero e proprio testamento spirituale. Infatti ha ancora il tempo di sussurrare qualcosa e di consegnare per intero, impressa nelle ultime e definitive parole, quella immagine di Cristo che aveva custodito nel cuore durante tutta la sua esistenza, quando a coloro che erano accorsi al suo capezzale, svela il segreto di una fede provata e dice che «il Signore non è nella forza ma nella verità».
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