Si parla molto del dopo quarantena in America Latina, quando la pandemia sarà, se non proprio archiviata, per lo meno addomesticata. È una prospettiva più o meno lontana a seconda dei Paesi ma c’è chi immagina come sarà il nuovo mondo, cosa non faremo più allo stesso modo e cosa cambieremo per sempre. «Non saremo più gli stessi», ha sintetizzato un autorevole pensatore argentino rappresentando tanti dei suoi pari di altre latitudini, declinando poi l’elenco delle trasformazioni a suo giudizio irreversibili. Artefice dell’inevitabile — per certi aspetti auspicato — cambiamento è la paura che incombe sull’esistenza individuale e quella collettiva.
Il ragionamento sottostante considera la natura come qualcosa di vischioso, attaccata alle abitudini. Perché qualcosa muti veramente — si argomenta senza esplicitarlo — occorre che qualcosa d’altro spinga i comportamenti umani con una potenza fenomenale, e anche così i passi non possono scavalcare i meccanismi evolutivi che, guardati con gli occhi di questo mondo, hanno la gradualità come legge suprema.
C’è molto di vero in questa impostazione di pensiero. Senonché la paura che attraversa l’esistenza individuale e collettiva può essere questa spinta al cambiamento? Può veramente produrre degli effetti duraturi nel comportamento degli uomini? Quegli stessi uomini scossi dalla prima pandemia globale della storia che non può essere comparata neppure alla Seconda guerra mondiale per estensione e capillarità di coinvolgimento?
Nel bel mezzo di un’altra pandemia che affliggeva l’Europa tutta, Rainer Maria Rilke si domandava se «nonostante le invenzioni e i progressi, nonostante la cultura, la religione e la conoscenza dell’universo, si sia rimasti sulla superficie della vita». Il dubbio dello scrittore austriaco nelle sue Lettere a un giovane poeta di quasi un secolo fa torna quantomai attuale.
La paura passa, la minaccia all’esistenza come la conosciamo passerà con essa, e il pendolo che oscilla tra due estremi tornerà al suo posto, concludendo l’arco del suo dondolio vicino, molto vicino al punto in cui l’ha iniziato.
Mentre leggevo l’autorevole opinione che ci immagina diversi nel futuro, il pensiero è corso agli esempi di dedizione che ho potuto vedere in questi tempi minacciosi, all’altra forza che ho visto in azione nei suburbi popolari di Buenos Aires, quella che spinge tante persone a cercare il bene degli altri in un momento di sconvolgimento generale. In un suo discorso di questi tempi il Papa li ha chiamati «i santi della porta accanto», quelli che sono capaci di perdere la vita servendo il prossimo, nel senso letterale della parola, il vicino, la persona che vive nello stesso quartiere, l’anziano che si incontra di tanto in tanto, la famiglia numerosa.
Borges, lo scrittore argentino per antonomasia, scriveva nella Biografía de Tadeo Isidoro Cruz che «Qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà di un solo momento: il momento in cui l’uomo sa sempre chi è». In questi frangenti di pericolo per la propria incolumità, ho visto tante persone dei quartieri poveri scoprire chi sono, prendere coscienza di essere capaci di qualcosa che supera e trascende la lotta per l’esistenza che sostengono tutti i giorni, sperimentare che spendersi per il benessere dell’altro fa bene all’altro e a sé stessi. «È un abbraccio che può darci la gioia di appartenere a una opera grande che tutti ci includa», scrive quasi alla fine della sua vita un altro letterato argentino, Ernesto Sabato. Nel suo libro La resistencia aggiungeva: «C’è qualcosa che non sbaglia ed è la convinzione che — solo — i valori dello spirito ci possono salvare da questo terremoto che minaccia la condizione umana». Camus, l’ateo Camus, osservava nei suoi Saggi solari che «…Quando si è avuta la fortuna di amare con forza, si passa la vita cercando quell’ardore e quella luce ...». Additava, forse senza volerlo, un principio di durabilità superiore al timore, che presto o tardi immobilizza il movimento del pendolo nelle vicinanze del punto di partenza: l’amore.
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