· Città del Vaticano ·

La virtù della speranza alla prova della pandemia nell’ultimo libro di don Julián Carrón

Con la curiosità
di un viaggiatore attento

Elio Germano in una scena del film «Il giovane favoloso»
04 giugno 2021

Senza speranza, senza un sincero dialogo con essa, l’uomo può al massimo darsi alla fuga, da se stesso e dal mondo. È a questo tema che don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, dedica il suo ultimo volume C’è speranza? Il fascino della scoperta (Milano, Editrice Nuovo mondo, 2021, pagine 160, euro 3,80).

Don Carrón parte da un dato, dalle parole di Papa Francesco pronunciate durante l’omelia del 2020: «Peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla!». Ma sprecarla in che senso? Cosa ha fatto di noi questa pandemia? E cosa possiamo trarre di positivo da essa per il nostro destino? La pandemia, in primis, è stata l’occasione per ristabilire quali conflitti, e quali forze contrapposte, siano veramente radice di ogni altro sentimento umano. Vita e morte. Il duello inestirpabile che ci portiamo tutti nel cuore. Questo duello è il culmine del nostro vivere e sentire. Il covid, in questo senso, è stato uno spaventoso moltiplicatore. Il terrore di morire e veder morire i propri cari ha strisciato dentro moltissime case, come la depressione montante, anche tra i giovanissimi, oppure il tentativo di far finta che nulla stesse accadendo.

Ma c’è anche chi ha reagito in senso sorprendentemente contrario. Al terrore ha risposto con un desiderio nuovo: ritornare alle questioni profonde dell’esistenza. Partendo dalla domanda fondamentale che investe, o dovrebbe investire, tutti: io chi sono? Con una curiosità rigenerata, troppo spesso schiacciata durante la nostra vita ordinaria, in molti hanno iniziato a farsi domande su quei sentimenti profondi, drammatici, così poco frequentati nella nostra epoca. L’uomo contemporaneo, infatti, ritiene inutile porsi interrogativi che non hanno apparente risposta. Perché ragionare sulla nostra natura? Sulla morte? Il dolore? Meglio, molto meglio, vivere nella cecità, trincerati dietro la favola che tutti questi argomenti non ci riguardino.

Invece, come si diceva, molti si sono ribellati alla regola della cecità e hanno reagito aprendo il più possibile gli occhi, cercando di guardare come mai avevano fatto prima. A costoro, come nota don Carrón, non sarà di certo sfuggito quella strana nostalgia che prende tutti quelli che si pongono di fronte alla realtà sinceramente. Una misteriosa nostalgia, quella che Ungaretti sentiva risuonare in ogni battito del suo cuore.

Molti hanno tentato di soddisfare quella nostalgia attraverso iniziative di carattere solidale, tutte importanti e utili. Ma quel sentimento chiede altro, chiede altra postura di fronte alla nostra esistenza. Chiede di abbandonare il falso mito della tranquillità e di gettarci nel reale come cacciatori infaticabili.

Perché senza tensione di fronte alla realtà, senza ricerca autentica, ogni nostra azione si infrange contro l’insoddisfazione, fallisce rispetto a quel compimento che sentiamo esistere ma che non riusciamo mai a raggiungere.

Per chi vive l’intensità del reale la via diventa vigilia. Il tempo assume la forma dell’attesa. Con la consapevolezza che non è di questo tempo e di questo mondo il compimento che ci domanda l’amore. Quindi, iniziare a coltivare la speranza che ciò che all’apparenza è impossibile sia in realtà il nostro destino.

Trasformare l’impossibile in possibile, è forse questo il vero compito? E come?

Don Carrón ci dice che è soltanto attraverso l’accoglienza profonda di questa apparente impossibilità che si riesce ad accettarla, a farne orizzonte della nostra attesa. Perché in cuor nostro lo sappiamo tutti, anche tutti quelli che si fanno sedurre dai traguardi costruiti ad arte dal mondo: nulla di questo mondo ci riempie veramente. Il non poter esser soddisfatto da alcuna cosa terrena, come diceva Leopardi.

Allora dove cercare la pienezza? Dove poggiare lo sguardo della nostra attesa? Dobbiamo affidarci all’incalcolabile. All’imprevisto montaliano. Dobbiamo iniziare a cullare nel nostro cuore una misura diversa e più grande. Un’Attesa sincera all’incalcolabile risveglia in noi la vera libertà. E un’attesa veramente libera, totale, è già di per sé un seme di speranza.

Qui entra in scena il Fatto. L’Evento. Abbiamo trovato il messia. Dice Giovanni (1, 41). Perché questo ci chiede la nostra anima. Il Salvatore. E lui è venuto. È nella Storia.

Cristo introduce l’avvenimento della salvezza. Il suo transito terrestre dà un profilo certo al traguardo che brancola la nostra insoddisfazione. Ma, nota don Carrón, questo fatto di per sé non salva. È una promessa che sta a noi avverare. E l’unico modo è stare dritti di fronte alla realtà, cercare in ogni esperienza della nostra vita la briciola, come provetti Pollicino, che ci avvicini al significato, che colori l’attesa di speranza.

L’uomo contemporaneo è disposto a investire il suo tempo, la sua fatica intellettuale, nella cura di una speranza così effimera? Non è forse il nostro il tempo della concretezza? In fondo l’uomo contemporaneo vive seguendo questo dogma: quello che non riesco a capire, possedere, non esiste.

È sempre la realtà a soccorrerci, realtà materna, fatta di gesti concreti che rimandano all’invisibile. Perché il senso dei segni, dice Carrón, è l’amore. Dunque, è nella testimonianza di chi lo introduce nella quotidianità la prova che resiste al tempo. Perché l’amore c’è, esiste.

La presenza di Cristo nella nostra epoca non viene più trasferita come fatto sociale, educativo, e questo, e non si può non essere d’accordo con Carrón, di per sé è una grande occasione di ricerca sincera. In questi termini, la nostra epoca appare come profondamente propizia. Ognuno può vivere il suo viaggio dentro la fede, dentro l’altro, in piena libertà, senza pregiudizi, alla ricerca di tutto ciò che porti testimonianza concreta della Presenza del Salvatore. E sono molti quelli che consapevolmente, o senza consapevolezza alcuna, incarnano con il loro amore la presenza di Cristo.

Arrivare all’abbandono totale nella fede, alla grazia di una speranza piena, quella che sa sostenerci nei momenti di buio, quella che sorride con noi alla bellezza della vita, dando alla bellezza stessa altro valore e profondità.

Ma chi arriva a una speranza di questa tempra? Don Carrón chiude il cerchio tornando alle premesse del libro. Ci arriva chi ha il coraggio di fronteggiare, un giorno alla volta, le pieghe della realtà, trovando in essa la Presenza che ci fa superare ogni prova.

E la prova, le prove, sono sempre le stesse. Quelle che la pandemia di covid-19 ha con prepotenza riportato all’attenzione di tutti. La morte. La sofferenza. L’incertezza del destino che ci attende.

C’è speranza? Il fascino della fede, percorre, tappa dopo tappa, quel viaggio che ognuno dovrebbe compiere per arrivare all’avvenimento che serba nel cuore. Perché nessuno, nessuno, e gridatelo a gran voce quando lo sentite affermare, è privo di quell’istinto al significato che gli urla dentro. Semmai, e sono moltissimi, la maggioranza, quelli a essersi convertiti al culto della distrazione. Don Julián Carrón ci ricorda che la speranza è possibile, occorre però la curiosità dei viaggiatori disposti a scoprire quel che non conoscono, e ad affidarsi alla realtà, molto più benigna di quanto non si dica.

di Daniele Mencarelli