· Città del Vaticano ·

A 100 anni dall’uscita del capolavoro di Franz Rosenzweig

La magia
del chiamarsi per nome

Marc Chagall «Io e il villaggio» (1911, particolare)
15 maggio 2021

Quella della relazionalità, intesa come quella dimensione nella quale, per usare le parole di Martin Buber, «nessuno è pura individualità (…) ognuno vive nell’io dal duplice volto», è una vicenda complessa all’interno della storia della fede, della filosofia e della società. Nell’orrore della grande guerra, dei totalitarismi e nelle vicende di Auschwitz la filosofia matura una riflessione molto attenta sul tema dell’intersoggettività, rivelando all’essere umano disumanizzato la sua natura sostanzialmente fondata sulla reciprocità e la relazione.

Tra i nomi di grandi filosofi che hanno riflettuto e scritto sull’interazione io-tu possiamo senza dubbio ricordare, oltre al già citato Martin Buber, Franz Rosenzweig, filosofo tedesco che con La stella della redenzione, di cui quest’anno cade il primo centenario, sosteneva che la realtà che circonda ognuno di noi non potesse essere conosciuta mediante lo sguardo solitario del singolo a sé stante, ma che fosse necessario guardare ad essa come tela intricata di relazioni tra le varie soggettività. Nella seconda parte del suo saggio (intitolata Rivelazione o la nascita incessantemente rinnovata dell’anima) Rosenzweig delinea la prima forma di relazione, madre e motrice di tutte le altre: la rivelazione.

Per “rivelazione” qui s’intende il rivolgersi di Dio all’uomo in qualsivoglia forma ciò avvenga: il Padre pone attenzione verso l’uomo, quell’attenzione che, scriveva Simone Weil, è «la forma più rara e più pura della generosità». E Dio, mediante la rivelazione, è generoso perché si lascia conoscere, perché si rivolge al diverso da sé. Mobilita l’uomo e allo stesso tempo lo abilita, cioè in fondo lo “nobilita” rendendolo capace di fare lo stesso, di volgere lo sguardo e di rivelarsi all’altro. L’altro è dunque il diverso, non come nemico o come ostacolo, ma come ricchezza che interpella ciascuno di noi e che irrompe nel silenzio dell’individualità per dialogare.

E proprio l’incontro e il dialogo sono al cuore dell’etica della rivelazione: l’essere umano è prima di tutto essere di relazione che accoglie l’amore divino, restituendolo nella forma dell’amore umano, come si legge nella prima lettera di Giovanni: «Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi» ( 1 Giovanni 4, 12). Tutta l’esperienza della rivelazione che è anche, e anzitutto, esperienza di relazionalità, per Rosenzweig, è appannaggio dell’oggi: oggi Dio si manifesta, oggi comanda e oggi è necessario prestare ascolto, poiché è “nell’oggi” che vive l’amore, forza motrice della relazionalità stessa.

Nella centralità data al carattere relazionale proprio dell’umano si può riconoscere un punto di contatto tra la filosofia intersoggettiva di Rosenzweig e quella di Buber che nel 1923 pubblicava Ich und Du («L’io e il tu» nella traduzione italiana): opera emblematica per la riflessione sull’intersoggettività a partire da una filosofia della relazione fondata sulla certezza speculativa che l’essenza dell’essere umano per Buber è il dialogo.

Ma allora, quale soluzione per l’uomo disumanizzato, problema che ancora oggi ci riguarda profondamente, secondo questi due filosofi? Chiamare ed essere chiamati per nome, come ci ricorda Papa Francesco perché «bisogna passare dalla cultura dell’aggettivo alla teologia del sostantivo». Dio stesso, chiamando per nome l’uomo, come avviene in tanti passi della Bibbia, trasforma l’individuo in un io che si prende cura del tu quando, ad esso, si rivolge: un’etica della responsabilità e dell’amore verso l’altro.

Oggi, forse più che in passato, sentiamo la necessità di essere chiamati, e di chiamare, per nome: davanti alle vittime isolate della pandemia, davanti alle vittime dimenticate del Mediterraneo, davanti alle vittime inascoltate della fame e della povertà, davanti alle vittime abbandonate del sopruso e della prevaricazione, davanti a ogni individuo vittima della mancanza di apertura al “tu”. Siamo tutti astanti come paralizzati davanti al triste spettacolo della deresponsabilizzazione nei confronti dell’altro che pervade, prepotente, la nostra quotidianità.

Urge allora una conversione nel senso non solo religioso ma anche più letterale del termine: un rivolgimento, un cambiamento di rotta ed una rivoluzione nel modo di guardare all’altro, svelamento di amore e, allo stesso tempo, fenditura tra le pieghe del freddo e sterile soliloquio.

di Margherita Di Marco