· Città del Vaticano ·

Sull’isola dei migranti dove si combatte il virus dell’indifferenza

Diario da Lampedusa

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15 maggio 2021

Cinque giorni nel cuore del Mediterraneo, dove approdano centinaia di migliaia di persone in cerca di futuro. Il racconto del dolore e delle speranze di chi arriva, e non è un turista. E quello della paura e della generosità di chi accoglie


6 maggio 2021
Ore 15.30


L’oblò dell’aereo incornicia il lungo lembo di terra brulla incastonato in un mare blu compatto. Ma man mano che ci si avvicina, il colore si scompone in un caleidoscopio di sfumature: chiazze azzurre in corrispondenza della sabbia, verde smeraldo o blu intenso a seconda della vegetazione. È Lampedusa, una delle isole dell’arcipelago delle Pelagie, in  Sicilia, nel territorio italiano più meridionale. L’isola è situata proprio al centro del mar Mediterraneo ed è più vicina all’Africa che all’Italia, nella latitudine del 35° parallelo, più a sud di  Tunisi  e  di Algeri. Per arrivare ci sono volute sei ore, due di volo e quattro di attesa a Palermo. È qui o a Catania, infatti, che si fa scalo per procedere verso l’isola. Lampedusa è zona rossa e proprio in questi giorni si sta procedendo a una vaccinazione a tappeto per renderla al più presto “covid free”.

Grazie alla sua posizione strategica, è il luogo di transito della maggior parte delle migrazioni. Porto di arrivo di centinaia di migliaia di persone in cerca di un futuro. E sede di organizzazioni e di singoli cittadini impegnati a contrastare il diffondersi del virus più pericoloso, quello dell’indifferenza.

Ore 16.30
I diritti generano accoglienza


Il Forum Lampedusa solidale è un’assemblea di cittadini e attivisti che si occupa di accoglienza e integrazione, salvaguardia dei diritti di cittadini e migranti, inclusione sociale di soggetti svantaggiati. L’assemblea è aperta a tutti, anche ai turisti che si trovano in quel momento sull’isola, e le decisioni si prendono all’unanimità. Ne fanno parte persone tra le più diverse: preti, suore, atei, protestanti, persone di passaggio. Sensibilità distanti ma unite da una comunione di intenti tale da eliminare o attenuare ogni conflitto. Una delle principali attività di questo esempio di democrazia partecipata è quella della primissima accoglienza dei migranti. «Veniamo a sapere di uno sbarco praticamente in tempo reale — racconta Elisa Biason, operatrice di Mediterranean Hope, un progetto sulle migrazioni della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, che fa parte del Forum —. Andiamo nei punti di arrivo e distribuiamo tè caldo, coperte termiche, acqua, viveri, giochini e merendine per i bimbi. Il servizio agli altri è il nostro punto qualificante e la relazione di comunità è al centro del nostro lavoro».

Il progetto Mediterranean Hope, nato dopo il naufragio del 3 ottobre 2013 quando, a meno di un miglio dall’isola di Lampedusa, morirono 368 persone, fornisce un’informazione costante su ciò che avviene sull’isola e a sud di essa grazie all’Osservatorio permanente sulle migrazioni. Da gennaio a oggi sono 5.672 le persone arrivate, di cui 630 donne, molte delle quali incinte. I minori accompagnati sono 227, quelli non accompagnati 222. I morti sono 602. Nel momento degli sbarchi non è possibile instaurare relazioni lunghe ma i volontari riescono comunque a intrecciare rapporti intensi e significativi. Elisa ne ricorda uno in particolare. Hortense, una ragazza di 18 anni della Costa d’Avorio, camminava avvolta nella coperta termica che le schermava il viso. «Un particolare che mi aveva colpito. L’ho avvicinata e le ho chiesto come stava. Mi ha spiegato che le dava fastidio la luce dei lampioni. Era stata segregata al buio per mesi e questo le aveva procurato una fotosensibilizzazione. Aveva anche una ustione causata da un acido versatole addosso dal “padrone”, peggiorata durante il viaggio». Un incontro fugace che è ancora vivo nella mente di Elisa, insegnante torinese in aspettativa, sull’isola da un anno.

Presso la sede di Mediterranean Hope, prima del covid, i migranti avevano la possibilità di usufruire del servizio di Internet point per mettersi in contatto con la propria famiglia e trovare informazioni multilingue sui servizi presenti sul territorio e sulla protezione internazionale in Italia e in Europa. «Ma lavoriamo anche per gli abitanti dell’isola attraverso interventi di tipo sociale e interculturale, convinti che un territorio è tanto più accogliente quanto più i diritti di chi ci vive sono rispettati», sottolinea Biason.

Ore 18
L’emergenza


Totò Martello è sindaco di Lampedusa dal 2017. Lo era già stato dal 1993 al 2002 per due mandati, quindi per lui è consuetudine gestire gli sbarchi, che si verificano soprattutto nel periodo primaverile ed estivo, quando il mare è favorevole. «Siamo preoccupati. Sta arrivando la bella stagione e temiamo arrivi in massa», dice nell’ampia stanza del comune, situato nei pressi della centralissima via Roma, dove i ristoranti si alternano agli alberghi e ai negozi, ora semideserta a causa delle restrizioni . Il covid ha rivoluzionato la prassi consolidata. Prima i migranti venivano ospitati nell’hotspot (letteralmente “punto caldo”), una struttura destinata alle operazioni di identificazione e alla distinzione immediata tra chi ha diritto a fare domanda di protezione e chi, invece, va rimpatriato, i cosiddetti “migranti economici”. In teoria, i migranti sarebbero dovuti rimanere nel centro solo per pochi giorni. In pratica, passavano anche mesi prima che venissero trasferiti nei centri di accoglienza della Sicilia e delle altre regioni d’Italia. Non essendo detenuti, erano liberi di circolare nel territorio. Con la comparsa del virus, gli abitanti non si sono più sentiti sicuri e così sono stati presi provvedimenti che non prevedono contatti fra indigeni e stranieri. «Nell’hotspot ora gli ospiti rimangono al massimo un paio di giorni, il tempo necessario per essere identificati ed essere sottoposti al tampone per verificare la presenza del covid», spiega il sindaco. Dopodiché vengono trasferiti sulle navi quarantena, quattro in tutto, dove rimangono per 14 giorni. Alla fine vengono portati a Porto Empedocle e distribuiti nei centri di accoglienza a seconda della disponibilità. I minori non accompagnati non vanno sulla nave ma direttamente nei centri predisposti.

L’istituzione delle navi quarantena, nata l’estate scorsa, ha consentito di risolvere due problemi: la carenza di posti e l’insorgere di eventuali conflitti con gli isolani. Che rimettere in mare persone che hanno fatto un viaggio lungo e drammatico possa essere fonte di grave disagio psicologico e fisico non viene preso in considerazione. Certo è che questa non sembra essere la soluzione del problema. «Il fenomeno delle migrazioni tendenzialmente non viene affrontato dalla nostra classe dirigente. Se si parla sempre di emergenza significa che il problema non è stato risolto — commenta Martello —. La tentazione è quella di prendere la scorciatoia della propaganda politica anziché quella di una seria presa in carico, ma così si rischia di alimentare sentimenti di odio, terrore e preoccupazione e quindi non si va avanti. Ci vorrebbe più responsabilità da parte delle cariche istituzionali. E l’Europa deve fare la sua parte».

7 maggio
Ore 9.30
Il povero è sempre straniero


Anche don Carmelo La Magra, parroco della chiesa di San Gerlando dal 2016, fa parte del Forum Lampedusa solidale, che definisce un’esperienza ecumenica in sé, di fraternità e amicizia. E anche lui è in prima linea in occasione degli sbarchi. «Si tratta di una zona militare e non potremmo entrare ma la nostra presenza è tollerata — spiega il sacerdote —. Così, oltre a polizia, carabinieri, guardia costiera, guardia di finanza e personale sanitario, che rappresentano una funzione di difesa da eventuali pericoli o malattie, ci siamo noi, gli unici estranei ammessi. Oltre a distribuire generi di conforto ci occupiamo anche di prenderci cura, di regalare sorrisi, di intercettare lo sguardo delle persone che arrivano, per evitare che pensino che si tratti solo di un carico e scarico, come se fossero animali. Ci andiamo per salvare la nostra faccia. La nostra dignità si vede anche da come accogliamo gli altri. Il Forum fa anche opera di informazione nei confronti della popolazione, senza difendere né accusare l’uno o l’altro, proponendo solo la realtà dei fatti. Parliamo dei diritti dei migranti ma anche di quelli che vivono sull’isola per far capire che se a qualcuno manca qualcosa non è per colpa degli stranieri. Non è facile, perché l’informazione corrente riguardo al migrante è molto potente ed è difficile contrastarla. L’atteggiamento dei lampedusani è un po’ come quello di tutti in altre parti d’Italia. Ci sono persone sensibili e accoglienti e persone ostili. La maggior parte è indifferente. Non prende posizione e non protesta, oscillando, a seconda dei casi, tra le proposte delle une e quelle delle altre. Si va da “Poverini, bisogna aiutarli” a “Ci danneggiano la stagione”. Qui c’è il totem del turismo, la convinzione che 50.000 villeggianti non creano problemi mentre 500 migranti sì. La verità è che noi non abbiamo paura dello straniero ma del povero. Se fossimo meta di arabi con lo yacht non parleremmo di invasione, anzi, metteremmo i tappeti rossi. Quello che a noi fa paura è il povero, di qualsiasi nazionalità sia. Il povero è sempre uno straniero».

È molto critico don Carmelo ma in modo costruttivo e propone un rovesciamento della prospettiva: «C’è bisogno di una legge sull’accoglienza non di una legge di contrasto all’immigrazione — afferma — Dovremmo superare la “cultura” emergenziale che finora non ha aiutato a trovare soluzioni concrete nonostante si tratti di numeri esigui a livello nazionale e soprattutto europeo. Se si sa che ogni anno arrivano 70/100 mila persone si tratta di organizzarsi non di affrontare l'emergenza; non si può essere in emergenza da trenta anni». Per don Carmelo anche le navi quarantena sono una soluzione insoddisfacente: «Mi sembrano una cosa più rassicurante che utile. Perché far fare la quarantena sulle navi quando poi li si deve comunque far scendere? Che motivo c’è di farli stare ancora in mezzo al mare? Qualche settimana fa un uomo si è suicidato e altri due/tre si sono buttati in mare per raggiungere le coste agrigentine e sono morti. Senza contare che le navi hanno un costo spropositato. Si parla di decine di milioni di euro. Quanti centri puoi costruire, quante persone puoi integrare, quanti bambini puoi mandare a scuola con quei soldi?».

Ore 11
La coperta di Youssef


Un urlo straziante lacera il buio della notte. «Ho perso il mio bambino! Dov’è il mio bambino?», grida la donna mentre si sporge dal barcone di soccorso di Open Arms per cercare disperatamente di riprendere il figlioletto rimasto in mare. La ragazza non ha neanche 18 anni e il piccolo Youssef solo sei mesi. Venivano dalla Libia e, lo scorso novembre, si erano messi in viaggio su un gommone insieme ad altre 90 persone. Teneva il piccolo stretto a sé la giovane mamma, ma poi il gommone si è spezzato a metà facendola scivolare in acqua. Quando l’hanno tirata su Youssef non c’era più. Nel poliambulatorio dove era stata portata, ripeteva come in trance «Quando potrò portare un fiore a mio figlio?».

Dei tanti morti in mare il più delle volte non si sa nulla. E per testimoniare la loro esistenza è nata l’idea di realizzare un  piccolo quadrato di lana  lavorato all’uncinetto dalle donne di Lampedusa. Il piccolo manufatto ha dato l’avvio ad altri quadratini che, da mesi, giungono alla  biblioteca ibby da varie parti d’Italia e del mondo. Centinaia di piccoli quadrati colorati cuciti tra loro  che hanno dato vita all’iniziativa “La coperta di Youssef”, una coltre gigantesca di 80 metri quadri.

«Un  deposito di storie e ricordi al tempo stesso simbolo e promessa di un impegno», dice Paola, volontaria della biblioteca ibby , dedicata ai minori che vivono o si trovano a Lampedusa. «Una memoria condivisa, patrimonio di una comunità non legata a una appartenenza territoriale ma diffusa ovunque, che non si limita a testimoniare la sua adesione a determinati valori ma che vuole attestare la sua attiva partecipazione al cambiamento».

Le iniziative della biblioteca sono tante: presentazione di libri l’estate con la presenza degli autori, educazione alla lettura e lavori collettivi con i silent books, libri senza parole, un progetto promosso da  ibby  Italia  in collaborazione con ibby  International  nato nel  2012. «Una porta spalancata a chiunque passi da qui. I silent books si prestano a varie interpretazioni e presuppongono una lettura corale. Non ci sono letture giuste o sbagliate».

Durante il funerale del minuscolo naufrago, una donna lampedusana ha donato alla mamma straziata uno scialle fatto a mano, avvolgendoglielo sulle spalle mentre l’abbracciava. «Youssef è il più piccolo dei morti migranti nel cimitero di Lampedusa. Ha passato più tempo nel grembo di sua madre che in questa vita», commenta don Carmelo. Sulla tomba scavata nella terra e delimitata da fiori e ciottoli bianchi c’è la sua foto con la scritta: «Perché così presto bambino mio!? La mamma e il papà ti ameranno per sempre». Su un foglio con il disegno di un arcobaleno due date: 26 aprile 2021 - 11 novembre 2021. Una lapide mandata da Open Arms indica le coordinate del punto in cui il neonato è stato trovato.

«Il 26 aprile scorso, giorno in cui avrebbe compiuto un anno, lo abbiamo commemorato — racconta don Carmelo —. Abbiamo composto i pezzi della coperta e l’abbiamo messa sulla sua tomba come a proteggerlo. In videochiamata c’erano la sua mamma, ora in un luogo sicuro, e il suo papà, ancora in Libia. Abbiamo promesso ai genitori che ci saremmo presi cura della tomba del loro bambino e che non l’avremmo mai lasciato solo».

In tutte queste storie di angoscia e sofferenza, di inadempienza e di ritardi da parte un po’ di tutti, quello che resterà nella memoria di ognuno di noi è l’immagine di un bambino di nome Youssef che non è mai diventato grande.

8 maggio, ore 10
«Per uno sconosciuto, gli sconosciuti non piangono»


Nel cimitero di Lampedusa hanno trovato sepoltura circa quaranta fra donne, uomini e bambini morti nel tentativo di raggiungere l’Europa. La quasi totalità delle tombe non ha un nome e le uniche notizie che è stato possibile reperire su queste persone riguardano le circostanze della loro morte e del ritrovamento dei loro corpi. «Provare lutto per la morte di chi non abbiamo mai visto implica una parentela vitale fra l’anima loro e la nostra. Per uno sconosciuto, gli sconosciuti non piangono». «È pensando ai versi di Emily Dickinson che abbiamo fatto sì che queste persone non fossero solamente un numero — ci spiega don Carmelo —. Tramite testimonianze, ricordi, articoli di giornali, abbiamo fatto un lavoro di ricerca per capire chi fossero le persone sepolte, per fare in modo che non morissero una seconda volta, prima in mare e poi nella nostra memoria».

«Nella consapevolezza che ogni frammento di storia è capace di produrre una crepa in quel muro che divide gli uni dagli altri e nella speranza che la memoria di queste vite non vada persa occorre continuare a raccontare, affinché si raggiunga una moltiplicazione di voci tale da essere assordante», recita la targa posta all’entrata del cimitero. Su una lapide si legge: «Pare che si chiamasse Yassin. Pare che Yassin venisse dall’Eritrea, che è stato arrestato senza motivo e chiuso in uno dei tanti lager libici. Pare che avesse un bimbo e una moglie in un centro di accoglienza in Svezia e che volesse raggiungerli. Quello che è certo è che è arrivato senza vita a Lampedusa il 7 novembre 2015».

9 maggio
Ore 8
Lo sbarco


Gli arrivi sono cominciati alle prime luci dell’alba, su barconi provenienti dalla Libia e su piccole imbarcazioni venute dalla Tunisia. Sono in tanti. C’è chi dice 600, chi 700, chi 1.000. Numeri a casaccio forniti dalle persone presenti, alcune delle quali non particolarmente compassionevoli. Un ragazzo percorre in lungo e in largo il piazzale del porto facendo video da postare sulla sua pagina Facebook e registrando a voce alta pensieri non sempre coerenti. Attilio, coordinatore della Lega a Lampedusa, lancia accuse pesanti: «A loro non gliene frega nulla di quello che succede nel Mediterraneo». A loro chi? «Alle ong, alla sinistra. Non gliene può fregare nulla. Io lo denuncio da anni, questo è un traffico di carne umana e loro sono complici. Per me sono fratelli, esseri umani, per loro no. Una volta potevamo capire che scappavano dalla guerra, dalla fame, ma ora no. Gli diamo il reddito di cittadinanza, gli diamo il permesso di soggiorno e cosa dobbiamo fare noi italiani, dobbiamo fare le valigie e andarcene? Dobbiamo ospitare tutta l’Africa?!». «E se vengono con un’arma? Vuoi che non ci sia un delinquente lì in mezzo?», incalza Salvatore, marinaio. «Non diciamo sempre che sono poveracci. Io tutta questa disperazione non la vedo. Si portano dietro pure i cani e i gatti! La maggior parte viene dalla Tunisia, che è un Paese ricco».

Sono momenti concitati questi, in cui decine di persone, ognuna nel proprio ruolo, gestiscono le varie operazioni. I migranti sono soprattutto uomini, alcune donne e qualche bambino. Sostano sulla banchina di Porto Vecchio in attesa delle procedure. Sono tutti scalzi. Alcuni uomini sono a torso nudo, altri indossano una maglietta e pantaloni diventati troppo grandi per quei corpi smagriti. Le donne, vestiti tradizionali e un foulard in testa. Tutti hanno le mascherine distribuite dai militari.

Si sottopongono pazientemente ai controlli di sicurezza e a quelli sanitari. Non una parola, non un gesto d’insofferenza. Mani in tasca, braccia conserte, sguardo basso. Alcuni zoppicano vistosamente. Sono i segni delle torture subite nei centri di detenzione libici. Ossa rotte, ustioni, ferite aperte, cicatrici, si saprà dopo. Qualcuno più in difficoltà viene fatto accomodare nell’ambulanza e sottoposto alle prime cure. In colonna vengono scortati fino a un edificio di fronte dove c’è una tettoia che li ripara dal sole che sta diventando inclemente.

Ma sono troppi e qualcuno rimane fuori.

Sfilano composti anche i bambini. Stringono tra le braccia i peluche donati dai volontari del Forum Lampedusa solidale, che distribuiscono generi di conforto e acqua, di cui tutti sembrano avere molto bisogno. Poi arrivano i pulmini che trasportano i nuovi arrivati all’hotspot. Il centro dispone di 200 posti circa, significa che la gran parte dei presenti dovrà restare fuori, notte e giorno. Chi sta male viene portato nel poliambulatorio e, se è in condizioni gravi, trasferito con l’elisoccorso negli ospedali della regione. Come nel caso di due uomini a cui è stata diagnosticata una tubercolosi e di due donne incinte, una delle quali con segni di travaglio. Il percorso è consolidato: identificazione, navi quarantena, centri di accoglienza. Ognuno procede con il suo fardello di dolore, ricordi, speranze. Ognuno verso il suo destino.

Ore 15


Gli sbarchi proseguono incessantemente. Alle 15.15 le persone sono esattamente 1.191. Un numero destinato ad aumentare nelle prossime ore. Subsahariani, bengalesi, maghrebini, un’umanità dolente che si accalca sulle banchine, ignara di ciò che la attende. Pietro Bartolo, per circa trenta anni medico a Lampedusa e ora europarlamentare, in questi giorni è sull’isola dalla sua famiglia. Percorre il molo Favarolo, in cui hanno attraccato le ultime imbarcazioni, e parla con il personale militare che gli viene incontro. «Dottore, quanti ne abbiamo fatti di sbarchi insieme, eh!».

Bartolo, fino al 2019 responsabile del Poliambulatorio dell’isola, era il primo ad essere chiamato e a dare le cure iniziali. Ha visto ferite devastanti, ha camminato su tappeti di cadaveri, ha sezionato corpi per tentare di dare loro un’identità. In trenta anni ha visitato 350.000 persone e raccolto un’infinità di storie, che ha raccontato nei suoi libri tradotti in tutto il mondo.

I ricordi gli riaffiorano alla mente mentre percorre la lunga banchina, su un lato della quale sono disposte in bell’ordine diverse taniche di gasolio trasportato dalle barche. La pavimentazione è sconnessa. Ci sono sassolini sparsi che rendono doloroso il passaggio dei migranti che, con i piedi nudi e gonfi, si reggono a stento. Il molo si sta sgretolando a causa delle mareggiate e dell’incuria. E insieme ad esso la nostra coscienza.

Il medico posa lo sguardo sulle barche appena arrivate piene di resti del viaggio: buste di latte, bottiglie di acqua vuote, indumenti, alcuni di piccola taglia, scarpe rotte, foulard, oggetti vari. Gli basta guardare quei brandelli di vita per scatenare in lui una selva di immagini. Entrare in quelle imbarcazioni era come fare una discesa negli inferi e trovarsi davanti l’orrore. Anzi l’Orrore, con la O maiuscola.

Ormeggiato più in là, c’è un barcone proveniente dalla Libia legato a un altro arrivato qualche tempo fa. Ha la chiglia arrugginita ed è immerso in parte nel mare, probabilmente sta imbarcando acqua in seguito a una falla. Bartolo dà una rapida occhiata ai bagni fatti costruire da lui per i migranti, lasciati in condizioni di degrado e sporcizia. Anche i lampioni sono rotti. I grossi sacchi di immondizia vengono portati via dai volontari del Forum anche se non è loro compito. Dovrebbe essere l’ente gestore, una società privata, a occuparsi della pulizia e della manutenzione.

Negli occhi e sul viso dell’uomo c’è un’espressione di rabbia mista a disgusto e dolore. Non parla. Non ora. Più tardi, sarà un fiume in piena...

dalla nostra inviata Marina Piccone

(Continua)