· Città del Vaticano ·

Il giorno dell’agguato nel ricordo dell’arciprete di Ravanusa

Quell’assoluzione da lontano

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08 maggio 2021

«Quel mattino ero stato convocato dal vescovo di Agrigento, monsignor Carmelo Ferraro. E praticamente mi stavo dirigendo da Naro verso Agrigento passando da Canicattì perché c’era un ponte interrotto e non si poteva passare, e quindi sono dovuto transitare da Canicattì». Racconta, con voce emozionata, il cinquantasettenne don Filippo Barbera, arciprete di Ravanusa (Agrigento) — all’epoca dei fatti novello sacerdote di 26 anni, ordinato l’anno precedente — contattato nei giorni scorsi da noi telefonicamente. La mattina è quella del 21 settembre 1990, quando lungo la strada statale 640 che collega Caltanissetta ad Agrigento, in prossimità del viadotto Gasena, quattro sicari ventenni uccidono il giudice Rosario Livatino (1952-1990).

Dunque lei stava percorrendo la statale 640?

Sì, arrivato a un certo punto vedo una colonna di auto ferme e ho dovuto fermarmi. Da subito ho pensato fosse un incidente. E siccome in seminario ci avevano insegnato che dovevamo essere sempre pronti a prestare soccorso, sono sceso prendendo con me l’olio per gli infermi che porto sempre in macchina. Incontrato il primo conducente, gli ho chiesto cosa fosse successo. Mi rispose: «Forse hanno ucciso qualcuno».

È andato avanti?

Mi sono portato avanti e proseguendo ho chiesto ancora a un’altra persona che mi confermò che giù dalla scarpata avevano ucciso qualcuno. Una fila di auto lunghissima. Poco dopo, superando il cavalcavia, ho continuato a scendere, soltanto che a un certo punto mi fermò un agente delle forze dell’ordine — credo fosse un poliziotto, di questo non sono sicuro — che mi disse: «Padre dove sta andando?».

Ha provato a spiegare cosa avrebbe potuto fare?

Certo, ho spiegato all’agente che, se non fosse passata ancora mezz’ora, avrei potuto dare l’unzione degli infermi, prima della morte biologica, oppure l’assoluzione. E lui: «Guardi, c’è il magistrato che sta verificando l’accaduto, meglio se non si avvicina, potrebbero respingerla. Comunque se può dia da qui l’assoluzione». Allora mi sono raccolto in preghiera e ho dato l’assoluzione sub conditione: se sei vivo ti assolvo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Cosa ha provato trovandosi in quel luogo?

Mi ha scioccato l’accaduto. Scorgevo a distanza il magistrato, il lenzuolo che copriva il corpo; mi ha segnato, perché fino allora avevo sentito parlare di mafia, però toccare la morte così da vicino e amministrare un sacramento a una persona uccisa dalla mafia ancora non mi era capitato. Un episodio che mi è rimasto impresso e, ogni volta che attraverso quel tratto di strada, mi raccolgo sempre in preghiera. Esperienze che non si possono descrivere ma che lasciano il segno.

Dopodiché andò dal vescovo Ferraro?

Appena giunto dal vescovo, era lì per lì per rimproverarmi perché era molto ligio agli orari. «Mi scusi — dissi — ma non ce l’ho fatta perché hanno ucciso il giudice Livatino». Lui era molto sensibile a queste tematiche, continuamente denunciava le stragi o la “carneficina” come la chiamava lui. E mi rispose: «Ne hanno ucciso un altro ancora». Chiudendosi in silenzio, molto provato dall’accaduto. Ed è stato proprio monsignor Ferraro a rendere noto questo mio episodio.

Conosceva il giudice Livatino?

Di persona non lo conoscevo, sapevo che era un giudice.

Quando è accaduto il “martirio” di Livatino dove svolgeva servizio?

Ero stato ordinato sacerdote da pochi mesi, il 3 novembre 1989. E, quando è accaduto il “martirio” del giudice Livatino, ero amministratore da qualche mese a Naro presso la parrocchia Madonna del Lume.

Ha mai chiesto l’intercessione del giudice Livatino?

Sì, dopo aver saputo che è stato avviato il processo di canonizzazione. Ma all’inizio, passando da quella strada, pregavo per la sua anima. E ora certamente ho cominciato a chiedere la sua intercessione perché Livatino è un beato che è diverso da tanti altri, cioè è il martirio del dovere fatto fino in fondo. Mi raccontava per esempio un parrocchiano che una volta in un processo qualcuno, un politico, aveva tentato una raccomandazione; chiese chi era il giudice che si occupava della vicenda e, una volta saputo che era il giudice Livatino, rispose: «Allora non c’è niente da fare».

Secondo lei come ha vissuto Livatino il momento della morte?

È l’integrità, la correttezza, il compimento fedele del proprio dovere, visto come esercizio di santificazione. Perché noi non è che ci santifichiamo perché c’è un certo Pontefice o un tale vescovo. A volte siamo portati a dire: se ci fosse un altro Papa, se ci fosse un altro vescovo forse farei meglio... Magari gli sposati dicono: se avessi un altro marito o un’altra moglie... No, noi ci santifichiamo in mezzo a queste circostanze e occasioni, come insegna la Gaudium et spes.

E Livatino in questo è stato esemplare?

Penso che Livatino non abbia mai detto «se ci fosse la mafia», no, nell’esercizio del suo dovere svolse il suo compito con discrezione, con molta umiltà. Mi ha colpito a esempio il fatto che quando ascoltava un imputato era uno dei pochi che alla fine, salutando, gli dava la mano: trattava cioè l’imputato come persona, lo accostava come persona. Ecco, questa è la santità bella del quotidiano, che affascina.

di Roberto Cutaia