· Città del Vaticano ·

A colloquio con Lucia Vantini

Quale teologia per l’oggi?

 Quale teologia  per l’oggi?  QUO-102
07 maggio 2021

La professoressa Lucia Vantini, insegnante di Teologia fondamentale e di Antropologia filosofica, e vicepresidente del Coordinamento delle teologhe italiane, ha moderato l’incontro sulla rifondazione della teologia di cui diamo conto in queste pagine.

Quale teologia per l’oggi. Un oggi segnato da una crisi che è passaggio epocale. Crisi che investe alle radici anche la Chiesa. Il discorso su Dio dell’oggi è essenzialmente ecclesiologico? La teologia dell’oggi si alimenta dell’esperienza del popolo di Dio per tornare ad esso?

Nelle crisi non è facile avere una visione lucida degli eventi, per cui occorre tornare all’essenziale con il coraggio di interrogarlo di nuovo. Dovrebbe trattarsi di una ripresa e non di una ripetizione, nella disponibilità a lasciarsi sorprendere e spostare. L’essenziale della storia di Gesù Cristo è che non c’è risurrezione senza croce e senza incarnazione, per cui una teologia all’altezza del presente — oggi come ieri — deve farsi attenta alle storie di sofferenza e a quello che accade ai corpi in carne e ossa.

In questo momento, dunque, c’è bisogno di risvegliare la responsabilità politica della teologia e la sua sapienza incarnata, per riconoscere i corpi e i loro legami come lo spazio in cui la vita di fede accade. In questo orizzonte, anche la Chiesa è in qualche modo un corpo di cui prendersi cura, prestando attenzione alle lingue e alle pratiche malate che la logorano, portandola a tradire lo stile evangelico di fraternità/sororità e lontano dai luoghi in cui pulsa la vita. La teologia per l’oggi, allora, non teme di nominare le croci del mondo e di ospitare le verità escluse per paura, anzi avverte in questo una precisa responsabilità; al contempo, proprio in quanto ispirata da una logica pasquale, cerca e tocca i punti di leva dei processi di liberazione e di libertà dal male, significando e mettendo in circolo quella gratuità del bene di cui spesso ci si nutre quasi senza accorgersene.

Questa aderenza alla realtà è possibile solo lasciando vuoto il posto di Dio, facendo indietreggiare il sé. Come leggiamo in Veritatis gaudium: il pensiero buono non satura gli spazi del senso ed è «sempre aperto al maius di Dio e della verità, sempre in sviluppo» (Vg 4).

Si ha spesso l’impressione che l’orientamento alla missionarietà della teologia indicato da Papa Francesco in «Veritatis gaudium» non sia stato pienamente metabolizzato dal mondo teologico. Esiste un “recinto teologico”, che pur dentro un confronto plurale, rimane comunque separato dal corpo vivo della Chiesa?

I testi del Nuovo Testamento nascono originariamente destinati alla comunità. Essi non si limitano al tentativo di raggiungere i contesti, bensì se ne lasciano anche raggiungere. Vi si trova infatti attestata una Chiesa che sa riorganizzarsi per la missione. Non si tratta di un adeguamento strategico ma di un dinamismo evangelico, fatto di continue dilatazioni e trasformazioni. Pensiamo per esempio agli effetti simbolici connessi all’episodio della donna siro-fenicia, di cui il recente Seminario nazionale del Coordinamento delle teologhe Italiane — Riformare, si può? — è un’espressione. O pensiamo alla discussione ecclesiale attestata negli Atti, che apre le porte della Chiesa ai Gentili.

Su questo, avviato da Matteo Crimella, si è recentemente attivato un interessante confronto nel Cati , dove le diverse Associazioni teologiche italiane stanno attualmente lavorando sul tema della riforma della Chiesa. Ne è emerso che i recinti ci sono e che spesso servono a piegare le differenze di chi vi abita. È come se le differenze potessero essere sopportate fino a un certo limite e solo come camei da non menzionare nei titoli di coda. In qualche modo, si rifà la domanda sbagliata: “Chi è il mio prossimo?”. Ancora una volta, si cerca un confine da tracciare e non una porta da aprire e dalla quale passare come Chiesa in uscita. Allora la pluralità diventa un nome vuoto e già la comunione intra-ecclesiale pare troppo: sembra più un miracolo che un’esperienza. Ancora molte resistenze rendono dunque difficile la metabolizzazione di quell’orientamento alla missionarietà di cui parla Papa Francesco.

Salmann nel suo intervento ha richiamato la vetustà del confronto tra fede e ragione che ha influenzato la teologia dell’ultima parte del secolo scorso, e formato un’intera generazione di teologi. La fine delle ideologie pone alla pastorale ma anche alla teologia domande diverse dalla disputa sulla “ragionevolezza” della fede. La teologia sta rispondendo a questa nuova sfida?

Salmann ha ricostruito con grande lucidità le metamorfosi di questo tempo. L’immagine di Dio prima gravita attorno all’ordine simbolico del Padre, poi assume un’impronta filiale — regale e poi kenotica— e ora ci immerge nell’età dello Spirito, con tutte le sue simbologie naturali, erotiche, terapeutiche, mistiche, sociali... Questo ha portato con sé diverse riconfigurazioni nel nostro rapporto con i testi biblici, ma anche nella nostra attenzione e sensibilità verso i temi e soprattutto verso i soggetti: le donne, le persone emarginate per diversi motivi (etnici, sessuali, sociali, economici). I fondamentalismi sono una reazione impaurita e inadeguata a gestire questa complessità. La scommessa da fare è giustamente sulla ricerca di un Dio iniziatico e ospitale. Ciò ci porta naturalmente lontano da un’ermeneutica teologica segnata dall’asse fede/ragione, che a dire il vero per le donne è stata sempre un po’ estranea perché costruita a partire da un logos apparentemente universale ma di fatto maschile.

A questo punto non si tratta però di integrare la trama di pensieri, testi e pratiche “femminili” in un paesaggio che mantiene le proprie mappe: non c’è da aggiungere discorsi, ma da ripensare insieme, donne e uomini, la teologia.

La pandemia ha riproposto con forza il tema del senso della morte, che tocca il cuore vivo del kerigma originario della tomba vuota. La teologia recente è sembrata essere più focalizzata sul senso della vita che sul senso della morte. C’è uno spazio perché la teologia possa tornare a declinare in forme attualizzate il concetto di “vita eterna”?

A me questa focalizzazione della teologia sul senso della vita pare essenziale. Non voglio rimuovere il pensiero della morte né evitare la finitezza. Sono convinta però che una teologia creaturale, centrata sulla nascita, abbia già fatto pace con il limite, perché lo prevede nella forma della gratitudine per qualcosa che nessuno può darsi da sé: la vita stessa. Valorizzando simbolicamente l’elemento materno come cifra di un’ospitalità ricevuta nel corpo di un’altra, la teologia si incarna veramente nella storia. La pandemia attuale ci ha messo di fronte alla morte, certamente, una morte stravolta nella sua forma singolare e personale, perché spesso avvenuta senza affetti vicino. Tuttavia questa pandemia ci ha anche fatto scoprire che siamo capaci di solidarietà, di prossimità, di cura per l’estranea/o. Così, per ereditare la vita eterna occorre andare ai crocicchi delle strade con un senso di gratitudine e custodire una recettività vitale: è lì che la Sapienza passa e che attraverso la solidarietà umana rende possibili esperienze di rinascita dal male, vere e proprie anticipazioni della vita eterna che ci aspetta.

I relatori al convegno hanno tutti riferito del carattere anche antropologico del cambiamento epocale in corso. In che misura questo sfida l’impianto teologico tradizionale? Come sta rispondendo il mondo teologico a questa sfida?

Sì, i tre relatori hanno descritto molto bene il cambiamento epocale in corso e le sfide connesse: ripensando una nuova reciprocità tra teologia e magistero cattolico, il prof. Theobald ci ha riportato alla struttura messianica del kerigma neotestamentario, che domanda uno stile di vita e di pensiero al contempo critico e capace di sogno; il prof. Salmann ha descritto il paesaggio attuale nelle sue intense metamorfosi religiose e teologiche che richiedono una sintonizzazione capace sia di gioia sia di sofferenza; infine il prof. Sequeri ha evocato una teologia che conosce la differenza tra ciò che è sacrificabile e ciò che è consacrabile, una teologia che farà tesoro della testimonianza della samaritana e del pubblicano, non dell’isolamento dei leviti e dei sacerdoti. La risposta del mondo teologico a queste sfide è forse ancora timida, perché questo si tiene lontano dai crocicchi delle strade nei quali si parlano lingue altre, impreviste e scomode. Se è vero — come si dice — che noi siamo un colloquio, le nostre teologie sono il frutto dei nostri dialoghi concreti. Se ci si tiene lontano da qualcuna/o, è la sua esperienza a mancare nelle nostre parole su Dio e viene inevitabilmente compromesso il sogno paolino di una Chiesa che non fa un uso gerarchico delle differenze.

di Roberto Cetera